Dal Bacio di Giuda alla Deposizione nel sepolcro: la narrazione figurata della Passione di Cristo nella tavola conservata nella chiesa di San Romolo a Valiana (Comune di Pratovecchio - Ar)
Dal Bacio di Giuda alla Deposizione nel sepolcro: la narrazione figurata della Passione di Cristo
La tavola a fondo oro, conservata nella chiesa di San Romolo a Valiana (Comune di Pratovecchio) databile tra la fine del secolo XIV e gli inizi del successivo, attribuita all’anonimo Maestro della Madonna Straus, è un raro e prezioso esempio di narrazione figurata della storia della Passione di Cristo.
La ricchezza di icone-simbolo, trasposizione figurativo-pittorica di episodi tratti da fonti letterarie (Vangeli), impreziosisce l’opera sulla quale le icone sono esposte come reliquie sul fondo oro che ne valorizza la sacralità. Le icone-simbolo, rese con dovizia di particolari descrittivi, tanto da far supporre una formazione in ambito miniaturistico dell’artista, sono raffigurate in una disposizione narrativa apparentemente caotica ma che in realtà risponde ad un andamento puntuale e articolato in sequenze, secondo i canoni di una narrazione continuativa, tipica dei cicli pittorici murali.
Gli eventi in sequenza cronologica prendono infatti inizio dall’icona in alto a destra e si sviluppano su due registri orizzontali in parallelo con il tipico andamento bustrofedico (comp. di βοῦς «bue» e tema di στρέϕω «volgere», andamento che ricorda quello dei solchi tracciati dall' aratro in un campo detto anche procedimento “a nastro”) in una bilanciata artificiosità. La croce è l’unico elemento destinato ad inquadrare spazialmente la scena che accoglie le icone, le figure e gli strumenti della flagellazione e crocifissione detti ARMA CHRISTI.
L’opera, in termini attuali può essere definita, lo storytelling della Passione, una narrazione che si sviluppa per immagini sintetiche ed efficaci a partire dal tradimento di Giuda fino alla Deposizione nel sepolcro.
Appare evidente l’intento della committenza di veicolare alti valori morali. Il tipo iconografico di riferimento che “formalmente riunisce motivi della Pietà e dell’Ecce Homo” è un Andachtsbild, ossia una “raffigurazione devozionale” destinata alla meditazione sul mistero della Redenzione cristologica, opera nella quale l’immagine narrativa si trasforma in una formula capace di comunicare e suscitare la devozione dei credenti, la compassione e l’empatia per Cristo e la sua Passione.
Il dipinto devozionale presenta immagini ieratiche a contenuto dottrinale (Reprasentationsbilder), scene narrative e figurazioni che fermano il racconto trascendendo il tempo. La rappresentazione a contenuto dottrinale, raffigura il Salvatore, nella sua condizione umana: l'imago pietatis che con alcune varianti decorava anche le tombe, per esempio quella della famiglia della Gherardesca, risalente agli anni 1315-1321, nel Camposanto di Pisa, è centrale, è il fulcro dell’opera con la quale il pittore, da una parte trasforma gli avvenimenti della storia di Cristo che riscatta l'umanità, in una visione atemporale dell'opera della redenzione, dall'altra conferisce all'effigie della divinità eterna anche i tratti della fragile esistenza umana.
Spetta a papa Gregorio Magno (Ep., IX, 52; PL, LXXVII, col. 990-991) aver scoperto nell'immagine non soltanto lo strumento della formazione dottrinale e pastorale dei fedeli, ma anche il mezzo capace di far vibrare il sentimento religioso e di suscitare in particolare l'amore per Cristo. Il tema dell’operato storico del Salvatore veniva tradotto in una rappresentazione che trascendeva il tempo degli avvenimenti narrati nel Vangelo e la persona stessa di Gesù, grazie ai nuovi mezzi di espressione introdotti dall'arte italiana e dal Gotico della seconda metà del sec. XIII, era mostrata nella pienezza della sua umanità fino alla fragilità e nell'umiliazione della sua Passione. Si verificò così, fin dal Medioevo, l'incontro della società con la soteriologia, dottrina della salvezza che si rivolge ai fedeli invitandoli a meditare sul sacrificio del Cristo e sulle sofferenze da lui patite per amore dell’umanità con un atteggiamento compassionevole.
Questa tipologia di raffigurazione devozionale era anche strumento di una nuova religiosità, fondata su immagini ieratiche a contenuto dottrinale, fortemente legata alle indulgenze come ben esemplifica l’iscrizione alla base della tavola di Valiana, leggibile solo in parte ma di cui è ancor possibile coglierne il significato nella sua interezza: QUI VIDET HEC ARMA CHRISTI BENE CONFESSUS HABET III ANNOS INDULGENTIE BEATO PETRO APOSTOLO … C… ES …XXVIII SUMMIS PONTIFICIBUS. AQUILIBET … INNOCENTIUS IIII OMN …).
La narrazione inizia in alto a destra dove il pittore raffigura il Bacio di Giuda, gesto con il quale il discepolo contribuisce all’arresto di Gesù, permettendo alle guardie di identificarlo: i volti di Giuda e di Gesù sono resi nelle loro espressioni più intense. Si susseguono verso sinistra lo scambio dei trenta danari: una mano consegna a quelle dell’Iscariota le monete d’oro, compenso pattuito per il tradimento (i trenta pezzi d’argento di cui narra Matteo (Mt 27,3-10); la fiaccola rimanda a quelle usate dai soldati che arrestarono Gesù nell'orto degli ulivi, il Getsemani (Mc 14,43-52); l’icona che segue mostra una mano che tiene strette delle pagliuzze : si tratta probabilmente di un simbolico segno che evoca le parole di Gesù al momento dell’arresto: “Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio ad insegnare e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le scritture” (Mc.14,43-52); seguono affrontati di profilo, il volto di una donna con copricapo bianco e orecchino e quello di Pietro caratterizzato da pelle scura: chiaro è il riferimento all’incontro del discepolo con la donna che l’accusò di conoscere Gesù e di far parte del gruppo dei suoi discepoli: e la giovane portinaia disse a Pietro: non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo? Egli rispose: non lo sono”(Gv 18,12-27 / Lc 22,54-22); l’allusione al triplice rinnegamento di Pietro è rafforzato dalla figura del gallo nero che cantò quando san Pietro rinnegò per la terza volta Gesù (Mc, 14,66-71); la colonna rimanda alla flagellazione cui fu sottoposto Cristo dopo il processo e la condanna a morte. Non esattamente in ordine cronologico, almeno per quanto riguarda la narrazione dei Vangeli canonici, è l’icona del coltello che taglia l’orecchio, rimando all’episodio avvenuto nell’orto degli ulivi dove nello scontro tra discepoli e guardie, Pietro tagliò l'orecchio di Malco, servo del sommo sacerdote (Gv 18,10) e che, secondo il Vangelo di Luca, Gesù guarì con un semplice tocco di mano. L’icona della brocca dalla quale fuoriesce acqua, è chiaro riferimento a Ponzio Pilato che “si lavò le mani”, gesto che nella tradizione ebraica indicava il prendere le distanze dalla colpevolezza.
La narrazione prosegue verso destra raffigurando lo scherno e la derisione cui fu sottoposto Gesù dopo la condanna: l’icona di un volto di un personaggio che deride Gesù suonando maldestramente un corno, una mano che fa il segno delle fiche, (segno popolare di disprezzo e sopraffazione) effettuato inserendo il pollice tra l'indice e il medio e le altre dita chiuse a pugno ( il gesto è ricordato anche da Dante nella Commedia (Inferno XXV, 2) riferito a Vanni Fucci : «Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò ... braccia che facevano il segno delle fiche rivolte verso Firenze”). A destra è raffigurato il volto di un uomo nell’atto di sputare in volto a Gesù; una mano che sorregge una canna con la quale viene colpita la testa il Salvatore, rimanda a quella posta nelle mani di Gesù come scettro durante l'episodio della sua derisione da parte dei soldati. Sul braccio orizzontale della croce sono raffigurati gli strumenti della Passione e morte detti anche ARMA CHRISTI: scudiscio, spugna, tenaglie corona di spine, chiodi, la Veronica. Tutti questi oggetti divennero non solo simbolo della Passione e morte del Cristo, ma anche elementi irrinunciabili nell'iconografia sacra per rappresentare il doloroso percorso che il Figlio di Dio fece per redimere dai peccati l'umanità intera. In fondo a destra è la scala che servì per la deposizione di Cristo dalla croce che rimanda alla parte centrale del dipinto dove il busto del Salvatore morto emerge dal sarcofago, il sangue fuoriesce dalla ferita del costato e le mani incrociate mostrano i fori delle ferite dei chiodi. Il sepolcro è caratterizzato da un marmo di un bel colore rosa: è da ricordare che nel 2017 durante i lavori di restauro dell’edicola che custodisce la tomba di Cristo all’interno del Santo Sepolcro a Gerusalemme, è stato scoperto un lastrone di pietra in marmo rosa bianco sopra il sepolcro vero e proprio che il team di ricercatori ha datato al periodo Crociato e, sotto questo, uno più vecchio in marmo grigio risalente al periodo di Costantino che ordinò la costruzione della Basilica. Il corpo esanime del Figlio di Dio riceve l’ultimo affettuoso abbraccio della Madre che gli avvolge le spalle con il manto, dando luogo ad un’innovazione iconografica che rimanda ad una contaminazione tra il tema della Madonna della tenerezza o Eleusa e la Pietà. Alla sinistra San Giovanni nella consueta posa dell’addolorato: il gesto simbolico della mano sul volto reclinato si presta ad una decifrazione immediata anche perché trova, non solo nella semiologia medievale ma ancor oggi, il suo corrispettivo in gesti comuni. La croce lignea scandisce lo spazio dividendolo geometricamente in modo regolare: sul lato destro è raffigurato Longino, facilmente riconoscibile per l’attributo della lancia (Lancia del Destino o Lancia di Longino) che rimanda alla leggenda, secondo la quale Gesù fu trafitto al costato dopo essere stato crocefisso. Assente nei racconti dei Vangeli sinottici, la lancia è menzionata solo nel Vangelo di Giovanni (19:31-37), in cui si racconta che, nel momento in cui i soldati romani pensarono di praticare il crurifragium (la rottura delle gambe dei crocefissi) accorgendosi che Gesù era già morto, lo colpirono al costato con una lancia. Il nome del soldato che colpì Gesù è riportato nel Vangelo di Nicodemo, uno dei Vangeli apocrifi (nel contesto cristiano la parola indica i testi che non fanno parte dei quattro vangeli canonici e non sono riconosciuti come parte del Nuovo Testamento).
La figura a sinistra, pone qualche problema di identificazione: il copricapo è un triregno o tiara papale cui si aggiunge la palma del martirio e il libro; si tratta di un papa che aveva subito il martirio; altro indizio da non sottovalutare è l’iscrizione in basso nella tavola che ricorda le indulgenze e papa Innocenzo IV che non è martire. L’identificazione con San Romolo di Fiesole, titolare della chiesa, è suggestiva ma il copricapo del santo non risponde alla forma della mitra bensì alla tiara. Il dipinto commissionato dai conti Guidi ed è stato attribuito all’anonimo Maestro della Madonna Straus, attivo a Firenze e nell’Italia centrale dal 1385 al 1415 circa, variamente identificato con altri suoi contemporanei. Secondo la De Benedictis è ipotizzabile una identificazione con l’altrimenti ignoto Donato Martini documentato nel 1340 al seguito di Simone di Avignone; questa ipotesi è ben accolta dalla critica. Altra ipotesi identificativa proposta è quella con Ambrogio di Baldese pittore che è stato studiato da storici dell’arte della levatura di Longhi, Hoffner e Boskovits, dato l’alto spessore artistico di questo protagonista dell’arte tardogotica.
Il Maestro della tavola di Valiana è un pittore che da un percorso stilistico iniziale vicino al neogiottismo si apre al nuovo stile del gotico internazionale accogliendo moduli di Lorenzo Monaco e Gherardo Starnina pur mantenendo una sua specifica arcaicità. Il suo catalogo fu ricostruito da Roberto Longhi nel 1928. Il dipinto di Valiana attribuito dal Pudelko nel 1937 e successivamente dalla Maetzke al Maestro della Madonna Straus, pittore che prende nome dal dipinto appartenente all’omonima collezione americana, s’impone all’osservatore per i delicati colori che s’inseriscono sapientemente nell’uniforme e prezioso fondo dorato e per la ricercata caratterizzazione dei tipi e costumi, nonchè per la chiara ed armonica disposizione delle figure e dei potenti simboli che nella loro specifica gestualità veicoli comunicativi nella loro sintetica gestualità risultano indispensabili alla comprensione dell’immagine nel suo complesso (è da ricordare come la civiltà medievale sia considerata “civiltà del gesto”). L’opera stilisticamente si collega per i suoi valori espressivi e formali all’ambiente orcagnesco e nei toni carichi di maggior grazia e sensibilità tardo-gotica alla cerchia di Gherardo Starnina, dopo il suo rientro dalla Spagna. Nella tavola polisemantica, ricca di simboli, gesti, figure, icone, depositari di significati legati ai testi evangelici, si sviluppa la storia della Passione con le stesse modalità che si ritrovano in un’altra opera attribuita alla stessa mano dell’anonimo maestro, conservata presso la Galleria dell’Accademia di Firenze, altro splendido esempio di innovazione iconografica e preziosità stilistica.
Alberta Piroci Branciaroli
Articolo pubblicato su Casentino Più. Su concessione dell'Autore