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La vita

Nino (Giovanni) Chiovini nasce ad Arizzano Inferiore (oggi Biganzolo, frazione di Verbania) il 14 Febbraio 1923 da Carlo Chiovini e Rita Francini, primogenito di sette figli.

Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza si svolgono tra il paese natio, dove segue il normale percorso scolastico, e nelle pause estive, il paese della famiglia paterna, Ungiasca, posto a mezza costa dell’entroterra verbanese. Ed è all’età di dieci anni che sale per la prima volta al “Vréi”, “la conca di Aurelio nella quale sorgevano i corti estivi dei miei conterranei” dove l’amore per la terra e le genti di montagna si rinforza in lui anche attraverso i racconti del padre. Consegue il diploma di perito chimico all’Istituto Cobianchi di Verbania nel 1942 ed è già in questi anni che il suo pensiero diventa critico nei confronti del regime.

Nello stesso anno si trasferisce a Cuggiono, piccolo centro lombardo, dove il padre Carlo è stato trasferito per via del suo impiego alla Cassa di Risparmio delle Provincie lombarde. Qui entra in contatto con un gruppo di giovani che si raccolgono intorno al prete antifascista Don Giuseppe Albeni. Con questi giovani compirà le prime azioni d’invito alla disobbedienza al regime, sino all’8 settembre quando, con gran parte di loro, entrerà attivamente nella Resistenza sulle montagne verbanesi, insediandosi proprio in quei corti che sono parte della sua vita e che ben conosce.

Col nome di Peppo darà così vita a una delle prime formazioni partigiane del Verbano che prenderà il nome di Giovine Italia. Da questa prima formazione si discosterà in seguito, unendosi alla Cesare Battisti, per dar vita a una “volante” di cui sarà il comandante: la “Volante Cucciolo” attiva sino al febbraio 1945 quando a Trarego sarà sopraffatta dai fascisti della Confinaria. A questo episodio sopravvivranno, dopo esser stati feriti, lui e Carluccio (Carlo Castiglioni); daranno in seguito vita alla nuova volante Martiri di Trarego sino alla Liberazione

 Dai suoi scritti traspare sempre l’amore per la sua terra, le sue genti ma anche per la libertà l’autodeterminazione e il sentimento di una giustizia “socio-spaziale”.

Nel dopoguerra si stabilisce definitivamente a Verbania.

I primi mesi dopo la Liberazione darà vita, insieme ad Arca (Armando Calzavara), comandante della Cesare Battisti, e a Marco (Giuseppe Perozzi), commissario della stessa formazione, al giornale Monte Marona di cui sarà redattore e impaginatore avvalendosi anche dei preziosi consigli grafici di Albe Steiner.

È in questo primo dopoguerra che pubblica a puntate sul giornale il suo diario partigiano dal titolo “Fuori Legge???” e che sarà stampato in versione completa solo dopo la morte. Un’opera questa che rivela da subito una notevole capacità di scrittura densa di ironia e freschezza narrativa unita ad una peculiarità che caratterizzerà in misura crescente i suoi scritti: la ricerca ed il rigore terminologico (tecnico, militare, naturalistico, toponomastico e successivamente storico ed etnoantropologico) dove formazione chimico-scientifica e pathos civile si intrecciano in modo del tutto originale.

Ed è anche in questo periodo che scrive in bozza il suo scritto letterariamente più intenso e personalmente partecipato, “La volpe” in cui rivive la tragica vicenda di Trarego e della Volante Cucciolo. Non volle mai pubblicarlo e pertanto verrà alla luce, come altri suoi scritti, dopo la morte. Nel frattempo viene assunto come tecnico chimico alla Rhodiatoce e nel 1946 si iscrive al PCI impegnandosi attivamente nella vita pubblica, ricoprendo dal 1951 al 1960 gli incarichi di Consigliere e Assessore al Comune di Verbania. Nel 1948 si sposa con Mary (Anna Maria) Favagrossa, primogenita di una famiglia dai sentimenti antifascisti.

Intensifica nel corso degli anni l’attività di approfondimento, ricerca, studio e scrittura sui temi della Resistenza, cercando di esporli, in maniera non mitizzata, rimettendo in discussione il rapportoapporto della popolazione civile, specie montana, e quello femminile con il movimento partigiano. Il suo giudizio è critico e si avvicina molto agli studi storici che da Revelli a Quazza e Isnenghi si prolungano alle microstorie dei vicini svizzeri come Plinio Martini, il maestro-scrittore che sull’altro versante delle Lepontine, ha dato voce alle vicende umane di fatica e speranza dei montanari della Val Maggia.

Si infittiscono in questi anni i rapporti con le biblioteche dei centri maggiori piemontesi, con gl’Istituti Storici della Resistenza soprattutto quello di Novara e della Valsesia e gli incontri e le registrazioni delle testimonianze e dei ricordi, aiutato da Peppino Cavigioli, partigiano del Valdossola, che per anni gli farà da mediatore con gli alpigiani di Val Grande testimoni delle vicende del periodo bellico e più in generale della vita alpina.

Nel 1966 pubblica Verbano Giugno 44 che con le successive integrazioni e approfondimenti sarà titolato I giorni della semina (1974 e successive riedizioni), testo ancor oggi fondamentale per comprendere il Movimento di Liberazione nel Verbano, i suoi protagonisti e i differenti rapporti tra le formazioni partigiane. Opera questa idealmente completata da altri due testi sulla resistenza verbanese: Valgrande partigiana e dintorni (1980) in cui raccoglie la storia di quattro protagonisti dell’epopea valgrandina (Maria Peron, Dionigi Superti, Alfonso Comazzi e Gianni Cella) introdotta da una lucida e critica analisi sul rapporto fra popolazione montana e bande partigiane (Guerriglia nel mondo dei vinti) e Classe IIIa B. Cleonice Tomassetti. Vita e morte (1981) in cui ricostruisce la storia drammatica e sino allora sconosciuta dell’unica donna che, in testa al corteo dei condannati, venne poi fucilata con altri 42 partigiani a Fondotoce.

Negli anni ’80 s’infittisce la sua ricerca storica e molteplici sono le collaborazioni a riviste (Novara, Resistenza Unita, Il Cobianchi, Ieri Novara Oggi, Verbanus, Le Rive, Bollettino storico per la Provincia di Novara …) con saggi sia sui temi della resistenza che, in misura crescente, di natura storico-etno-antropologica in particolare su quella che lui stesso definirà “civiltà rurale montana”.

Escono così in successione:

Cronache di terra lepontina (1987) un affresco della civiltà rurale montana delle Valli Intrasche e Vigezzina attraverso il loro plurisecolare conflitto per il possesso dei pascoli valgrandini che a partire da un eccidio – forse storico forse leggendario – avvenuto nel 1355 si snoda per oltre cinque secoli trasformando il paesaggio sino a quando quella cultura costituita di terrazzamenti, pascoli, casere e baite declinerà sommersa da “un sipario di foglie”;

A piedi nudi. Una storia di Vallintrasca (1988) l’epica storia montanara di Antonio e di sua madre Sofia ricostruita tramite la “esercitata memoria degli analfabeti”: una vita di stenti, qualche speranza e poche gioie. Sofia, registrata alla nascita, “non è possibile sapere se per errore o per una vampata di stramba esibizione di erudizione”, con “il più sofisticato nome di Sorrida” morirà cadendo, scalza e con la gerla carica di fieno, da uno spuntone di roccia: simbolo delle donne alpigiane della Val Grande;

Mal di Valgrande (1991) in cui “senza nostalgie” l’autore si cimenta “nell’interpretazione dei sentimenti che animarono gli alpigiani che operarono entro quella valle” e che “ne conservano una particolare memoria, da me valutata più profonda rispetto a quella di chi praticò altre aree montane per analoghe necessità;

Le ceneri della fatica (1992), postumo, pubblicato poco dopo la sua scomparsa, ricostruzione storica, iconografica e sentimentale del rapporto fra la comunità verbanese e la retrostante Vallintrasca con uno sguardo particolare ai “corti della conca d’Aurelio” dei suoi avi, ambito primo della sua formazione di uomo libero e di scrittore in grado di portare alla luce il sedimento fecondo delle passate generazioni.

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