di Ginevra Sanfelice Lilli e Alberto M. de Marsanich
“Verrà da me il silenzio;/il silenzio che entra nelle vesti dei morti. / L’istante era povero/ (abbandonato e ferito) /ed i nostri cieli stranieri. /Fuggiremo alla ricerca della/Rivoluzione, / ha gridato il vento, /e i nostri ultimi giorni/hanno urlato, feriti”.
I versi sono di Hasan Atiya Al Nassar – il titolo della poesia, Silenzio, tratta da Roghi sull’acqua babilonese, DEA Firenze, 2014.
Tre anni fa, il giorno di Natale del 2017, moriva a Firenze un grande poeta di origine irachena, costretto a fuggire da Nassiria nel 1981 perché oppositore dell’allora governo di Saddam Hussein.
L’esilio, l’abbandono della propria città, del proprio paese, l’emigrare è un recidere le proprie radici. Si resta avvolti da una filigrana invisibile, da una sottile membrana che accompagna i giorni dell’espatrio con una impercettibile separazione dall’altro. L’abbandono della propria terra è spesso una lacerazione interna di cui si porta il segno, una sofferenza latente e continua.
La partenza è una forma di grande coraggio, e il dolore che lo accompagna acuto come scrive nell’Antologia Liber VI, Leonida di Taranto:
“Molto lontano dormo dalla Terra/d’Italia e dalla mia patria, Taranto. Questo è per me più amaro della morte. / Tale è la vana vita di ogni nomade,/ Ma le Muse mi amarono, e per tutte/le mie sventure mi diedero in cambio/la dolcezza del miele./Il nome di Leonida non è morto./I doni delle Muse lo tramandano/fino alla fine di ogni tempo”
Leonida (Taranto, 33 o 320 a.c - Alessandria d'Egitto, 260 a.C. circa) fuggì da Taranto per non diventare schiavo in mano ai Romani e visse lontano dalla patria tutta la sua vita. Leonida, che “era un uomo libero” dirà Quasimodo, nel IV secolo a. C. vagava in esilio sulle sponde Orientali del Mediterraneo.
Con un salto nel tempo, Cacciaguida, nello stesso linguaggio diretto a disarmante degli altri poeti esuli, predice a Dante, nel canto XVII del Paradiso della Divina Commedia:
“Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente; e questo è quello strale/ che l’arco de lo esilio pria saetta. / Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.
Il sapore dell’esilio è un sapore di corrosione, di consunzione, ha il sapore del sale. Tornando nuovamente indietro nel tempo, tredici secoli prima (8 d. C.) Ovidio lascia Roma per Tomi, sul Mar Nero.
“Quando mi torna in mente l’immagine triste di quella notte che fu l’ultima che passai a Roma; quando ripenso quella notte in cui tante dilette cose lasciai, ancora verso dagli occhi il pianto”.
Ai versi e alle parole di questi poeti si aggiunge la voce vibrante di Ugo Foscolo che in “A Zacinto” scrive:
“Né più mai toccherò le sacre sponde/ove il mio corpo fanciulletto giacque,/ Zacinto mia, che te specchi nell'onde/ del greco mar da cui vergine nacque/ Venere, e fea quelle isole feconde/ col suo primo sorriso, onde non tacque/ le tue limpide nubi e le tue fronde/ l'inclito verso di colui che l'acque/ cantò fatali, ed il diverso esiglio/ per cui bello di fama e di sventura/ baciò la sua petrosa Itaca Ulisse./ Tu non altro che il canto avrai del figlio,/ o materna mia terra; a noi prescrisse/ il fato illacrimata sepoltura”.
Immagine di copertina di © Ginevra Sanfelice Lilli
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