“Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità… Noi canteremo…il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta” scrive Tommaso Marinetti nel Manifesto del Futurismo che pubblica sul giornale francese Le Figaro.
Gabriele d’Annunzio, il sommo poeta, vola per la prima volta su un fragilissimo biplano fabbricato dai fratelli Wright e pilotato dal Sottotenente di Vascello Mario Calderara. L’aereo è una macchina fatiscente, una leggera struttura in traliccio di legno ricoperta da una tela verniciata, il solo guardarla mette i brividi.
“Il momento in cui si lascia la terra è di una dolcezza infinita. È un nuovo bisogno, una nuova passione”. E’ l’12 settembre 1909, una delle giornate di inaugurazione del primo aerodromo italiano a Montichiari a qualche chilometro da Brescia. L'Aeroclub d’Italia vi ha organizzato una serie di gare internazionali di volo, in palio c’è la bella somma di 50.000 Lire. L’aerodromo è un enorme campo brullo, un'immensa arena dove i piloti ingaggiano una battaglia di solitaria bellezza sfidando le leggi della natura con quei fragili biplani. Un’incredibile folla si accalca sotto il sole cocente lungo le staccionate che delimitano il campo.
L’evento straordinario ha richiamato molti personaggi illustri, tra i quali il compositore Giacomo Puccini, il direttore d’orchestra Nicolò Toscanini e l’inventore del telegrafo Guglielmo Marconi. Con un taccuino in mano c’è pure il giovane scrittore Franz Kafka, che insieme al suo amico Max Brod scrivono articoli per un giornale di Praga. “Cosa sta succedendo? Là, sopra di noi, a venti metri da terra, un uomo è intrappolato in una gabbia di legno e lotta contro un pericolo invisibile, affrontato deliberatamente. Ma noi, sotto, siamo lì, inesistenti, e stiamo guardando quell'uomo.”
Gabriele d’Annunzio cammina davanti agli hangar fatiscenti degli aerei, risponde a continue interviste mentre cerca qualcuno che lo porti in alto nel cielo. All’evento assiste anche Luigi Barzini, importante inviato del Corriere della Sera: “D’Annunzio è arrivato da Marina di Pisa in automobile, ma si direbbe piombato qui per le vie aeree tanto la sua elegante persona è monda da ogni traccia di polvere o di fango. Egli visita gli aeroplani a domicilio, uno per uno, e li ammira da competente.”
Prima il Vate sale sull’aereo dell’americano Glenn Curtiss, ma in due il veivolo risulta troppo pesante e riesce a malapena a decollare. Allora il poeta chiede al Tenente Mario Calderara, che aveva già conosciuto a Roma sulle piste di Centocelle, di salire sul suo biplano. Il giovane Calderara è un grande appassionato del volo, si era da subito interessato agli aspetti tecnici curati dai due mitici fratelli Wright nella messa in opera dell'impresa di volo. A Montichiari, durante le gare, guida un loro veivolo che Wilbur Wright in persona cinque mesi prima gli aveva insegnato a pilotare. L’Aereoclub d’Italia darà poi al tenente Calderara il brevetto N. 1 del primo pilota italiano.
Quindi quella mattina del 12 settembre Gabriele d’Annunzio e Mario Calderara si alzano in volo. Tutti gli spettatori guardano verso l’alto e seguono nel cielo quella macchina straordinaria che come un uccello volteggia per dieci minuti intorno all’aeroporto. Quando salta a terra il Vate è felicissimo “È una cosa divina. Non penso che a volare ancora”.
“Ora v'è un vocabolo di aurea latinità - velivolus, velivolo - consacrato da Ovidio, da Vergilio, registrato anche nel nostro dizionario; il quale ne spiega così la significazione: che va e par volare con le vele” scrive d’Annunzio nel romanzo Forse che sì forse che no pubblicato l’anno successivo, romanzo in cui si ritrovano riferimenti inspirati a quell’incredibile giorno di volo.
Credits Foto: per gentile concessione dalla collezione Mario Caldara
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