Il 13 gennaio del 1941 moriva a Zurigo James Augustine Aloysius Joyce. Era nato nel 1882 a Dublino, in un’Irlanda gravata dal doppio giogo della Corona britannica e dell’asfissiante bigottismo. Con la sua terra madre ebbe un legame conflittuale e altresì indissolubile, perché “Quando in questo paese è nata l’anima di un uomo, le vengono gettate reti per impedirle di fuggire”.
Amato, odiato, incompreso. Poeta, prosatore, drammaturgo anticonformista, irriverente, rivoluzionario: nelle sue opere scardina, stravolge, rinnova, plasma lingua e tecniche narrative. Un iter compositivo travagliato il suo: in A portrait of the Artist as young man scrive: “La personalità dell’artista, dapprima un grido, una cadenza o uno stato d’animo, poi una narrazione fluida ed esterna, si sottilizza alla fine sino a sparire, si spersonalizza, per così dire”.
Joyce è maestro di parole, demiurgo di immagini, artefice di suggestioni: fin dagli esordi i suoi testi sono pervasi da tensione sperimentalista, da inquietudine innovativa. Trasporta nelle sue opere i personaggi che popolano la sua vita, tipi rappresentati con crudo e spietato realismo, creature forgiate con la perizia dello scultore più che del pittore, paradigmi di un’umanità colta spesso nei suoi tratti più miserandi e squallidi.
Chamber Music, A portrait of the Artist as young man, Ulysses, Finnegan’s Wake, le principali tappe della produzione joyciana, si muovono sul duplice binario della liberazione e dell’acquisizione. Liberazione dall’obsolescenza e dalle imposizioni di qualsivoglia natura. Acquisizione e consolidamento di una concezione d’arte personale, che si serve di strumenti e tecniche come epifanie, monologo interiore, flusso di coscienza: ne risulta una narrazione polifonica, avvolgente, di complesso, eppur fortissimo, impatto emozionale.
Tra gli aspetti meno noti dell’artista c’è la sua grande passione per la musica, che traspare in tutti i suoi scritti. La sua raccolta di versi, pubblicata nel 1907, non a caso si intitola Chamber Music: riferendosi alle poesie in essa contenute, lo scrittore ha modo di esprimere il desiderio che qualcuna di esse possa essere musicata. Qualche anno dopo il desiderio di Joyce sarà esaudito da uno dei musicisti più geniali di tutti tempi.
Nel 1970, infatti, Syd Barrett pubblica The Madcap Laughs, che contiene una delle liriche più belle di Chamber Music, Golden Hair. I versi di Joyce sono eleganti e raffinati, Barrett ne asseconda l’intenso lirismo con la sua splendida voce onirica ed evocativa. Le sonorità sono suggestive: una chitarra acustica, un organo appena accennato, delle percussioni che punteggiano e chiudono con delicata solennità il brano.
“Quei versi offuscati erano così fragranti come se fossero stati per tutti quegli anni avvolti nel mirto, nella lavanda e nella verbena”. Parole che Joyce dedica a Orazio; parole che possono esser fluite nella mente di Barrett leggendo le liriche di Joyce.
Fotografie di Alessandro Suraci
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