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Pessoa, una vita plurale

10 Febbraio 2021
Pessoa, una vita plurale
«Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia, non c’è niente di più semplice. Ci sono due date, quella della mia nascita e quella della mia morte. Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei» F. P.Di Maria Vittoria Querini

Fernando Pessoa (Lisbona 1888-1935) è ritenuto uno dei più grandi poeti del XX secolo. La sua abitazione, quella dei suoi ultimi anni, è oggi una Casa di Cultura che porta il suo nome; in essa lo si ricorda, lo si celebra, lo si custodisce. E’ a Campo de Ourique, un quartiere centrale di Lisbona. La vita quotidiana del poeta si modulava sui tempi di questa città atlantica e luminosa che lo vedeva percorrere, in totale anonimato, l’intreccio di strade nella Baixa Pombalina per recarsi al suo lavoro di impiegato o per rifugiarsi nei caffè più noti, quelli destinati agli incontri letterari.

Ma non si può parlare di Fernando Pessoa senza ricordare Antonio Tabucchi (1943-2012), che è stato docente di lingua e letteratura portoghese all’Università di Bologna, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Lisbona e scrittore di successo. Egli ha il merito di aver fatto conoscere Pessoa anche in Italia contribuendo, non poco, a svelare quei giorni che Pessoa voleva solo suoi.
Tabucchi è oggi considerato tra i suoi maggiori esperti, critici e traduttori perché ne subì il fascino da subito, appena ebbe tra le mani il poema in versi Tabacaria. Lo trovò a Parigi, su una bancarella vicino alla Gare de Lyon, in versione francese e a firma di Álvaro de Campos, uno degli eteronimi di Pessoa. Da quel momento Tabucchi volse i passi e la mente verso il Portogallo e il suo contesto letterario.

Pessoa viveva attraverso gli eteronomi che aveva creato, Alberto Caeiro, Álvaro de Campos, Ricardo Reis, che non erano pseudonimi, ma personaggi con una loro vita autonoma. Indossò la maschera di Bernardo Soares, uomo modesto che sognava Samarcanda, per comporre il diario lirico e metafisico della sua anima, Il Libro dell’Inquietudine, una sorta di autobiografia senza accadimenti.
L’opera è uscita postuma - come le altre - ricostruita dalle carte emerse dal famoso baule
pieno di gente”, aperto dopo la morte dello scrittore.

Un giorno, uno dei tanti trascorsi a Lisbona, mentre stavo per entrare al Teatro São Carlos, guardando per caso verso il palazzo di fronte che chiude la piazza proprio come una quinta di teatro, mi fulminò un’immagine familiare, una sagoma nota. Riconobbi la casa natale di Fernando Pessoa: perché, prima che l’inquietudine del poeta, mi ha sempre colpito la vita dell’uomo.
L’adolescenza in Sud Africa, la morte precoce dei fratelli e del padre, la pazzia della nonna Dionísia, quel trasbordare di casa in casa, quel namoro irrisolto con Ophélia Queiroz, tutto confluiva in un affresco di famiglia dal destino severo ma che, proprio per questo, ha ottenuto il mio tributo emotivo.

La vita privata di questo grande esponente della letteratura fu sicuramente poco vistosa e «la storia dell’amore segretissimo e casto con Ophélia, così ottimisticamente puerile e insieme così senza speranza, potrebbe forse sembrare ridicola se non partecipasse, proprio come i veri grandi amori, del ridicolo e del sublime» scriveva Antonio Tabucchi nella sua postfazione a Lettere alla fidanzata, la raccolta delle missive che Pessoa, nella ricerca anche di sé, inviava quasi giornalmente a una giovanissima Ophélia Queiroz. Era il 1920. L’unica sua opera pubblicata in vita - e poco prima della sua morte - Pessoa la consegnò alla porta di lei, senza tuttavia incontrarla. Era Mensagem (Messaggio)…

Il Martinho da Arcada è uno dei caffè di Lisbona che Pessoa frequentava. Vi passai un pomeriggio intero, ma il vecchio locale con le pareti di legno e i tavoli di marmo non trasmetteva più - né poteva - antiche suggestioni. Forse perché, lì fuori, le Ophélie passavano veloci in minigonna e stivali da combattimento. E nell'Arcada, con gli ultimi raggi di sole, entrò solo un sospiro di vento salmastro.

Il primo studioso straniero di Pessoa, il francese Pierre Hourcade, conobbe il poeta proprio al Martinho da Arcada nel 1930 e così lo ricorda: «Lo credevo piccolo, malinconico e scuro, soggetto al funesto fascino della "saudade" con cui si intossica tutta la sua razza, e d’improvviso mi imbatto nel più vivo degli sguardi, in un sorriso sicuro e malizioso, in un volto che trabocca da una vita segreta. Da quell’uomo malaticcio, i cui occhi erano protetti da spesse lenti, irradiava un incanto indefinibile fatto di estrema cortesia, di perfetta semplicità, di buonumore – sì, anche di buonumore, in quell’uomo disperato e torturato come nessun altro – e di una sorta di intensità febbrile che ardeva sotto la facciata apparente delle buone maniere» (Angel Crespo, La vita plurale di Fernando Pessoa).

E proprio gli occhiali, oggetto negletto ma indispensabile per guardare la vita, o per vivere visivamente la propria morte, furono l’ultima angosciosa richiesta di Pessoa prima di morire: «Dammi i miei occhiali». Quasi come avvenne per Goethe che, spegnendosi, chiedeva «Più luce…».

Fernando António Nogueira Pessoa, accolto per anni al cimitero Dos Prazeres di Lisbona - dove per vicendevole destino è oggi sepolto Antonio Tabucchi nella cappella dedicata agli scrittori portoghesi - dal 1985 riposa nel Chiostro del Monastero dei Jerónimos, a poca distanza dalle glorie del Portogallo, Luís de Camões e Vasco da Gama.
In occasione della traslazione solenne di Pessoa nel Chiostro cinquecentesco Tabucchi pensò che questa scelta fosse addirittura inadeguata, che un unico luogo di sepoltura fosse insufficiente e che sarebbe stato più giusto affidare le ceneri ai luoghi sparsi per il Portogallo dove vissero gli eteronimi, un luogo per ogni uomo che fu Pessoa nella sua vita plurale.

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