Da
tempo lo scrittore Maurizio Maggiani vive agli antipodi della Liguria, dove è
nato e cresciuto. Ora ha quasi settant’anni e abita in Emilia Romagna, nel bel
mezzo della campagna, dove coltiva il suo orto tra colline di Sangiovese. “Qui
– racconta con la sua voce calma e profonda – posso guardare l'alba, io che sono
vissuto per gran parte del tempo a ovest, al tramonto. Un cambio di sguardo che
mi pare un buon modo per non invecchiare”.
Certo,
ci tiene a precisare, ha una casa anche a Genova e quando finirà “questa storia
orrenda della pandemia” ha intenzione di tornarci il più spesso possibile,
perché – confessa, dopo una breve pausa - ha bisogno anche del tramonto, come ha bisogno
dell'alba.
Premio
Campiello 1995 con Il coraggio del
pettirosso e Premio Strega 2005 per Il
viaggiatore notturno, Maggiani ha pubblicato il suo ultimo libro nel 2018, L’amore (edito da Feltrinelli) e ci confida
di averne appena finito un altro, una storia leggendaria di cui però non può ancora
svelarci molto.
E
così il telefono da cui ci concede questa intervista si trasforma in una sorgente
di vita narrata, tra libri, letture e ricordi più o meno lontani.
Il 23 aprile
è la giornata mondiale del libro e del diritto d’autore. Nel suo ultimo romanzo,
“L’amore”, si trovano spesso immagini legate all’abitudine di leggere. Qual è
il suo primo ricordo del libro come oggetto?
Il
libro c’è sempre stato, per me si è sempre trattato di un rapporto viscerale.
Mi ricordo che non sapevo ancora leggere però mio padre, che era un operaio, e
mio nonno, che era un contadino, nella loro casa avevano una biblioteca. Si
trattava di una biblioteca piccola in assoluto, ma direi che comunque ci
fossero in casa mia più libri di quanti ce ne siano oggi in una casa di un
qualche ministro, di questo ne sono certissimo. Erano tutti libri di edizioni
popolari, dispense di fine ‘800, alcuni libri erano addirittura del mio
bisnonno. C’era l'Orlando furioso,
una Divina Commedia in grande formato
venduta a dispense e poi rilegata dal 1894 al 1896, c'erano libri di Victor
Hugo, di Dickens, una storia del mondo, un’altra sulla nascita dell'uomo, la
storia d'Italia e due o tre libri di Giuseppe Mazzini…A tre anni ho cominciato
a tenere in mano quei libri, a guardarli, perché erano libri illustrati. La Divina Commedia, per esempio, aveva le
illustrazioni del famosissimo Gustave Doré. Andavo pazzo per quelle immagini di
mondi fantastici. E poi ricordo la carta, l’atto di sfogliarla; deve esserci
qualcosa di freudiano ma ho sempre avuto una straordinaria passione per la
carta perché da bambino, quando ancora non sapevo leggere, scrivevo e scrivevo
con la matita di mio padre su un foglio. Chissà in che tipo di scrittura,
eppure scrivevo.
Quanto è
importante creare occasioni per far entrare le persone in contatto con i libri?
Certamente
il mio rapporto con i libri è nato perché mi è stata offerta l’occasione, sin
da piccolo. Avere qualcuno che riesce a educarti al libro è un dono. Siccome il
libro non cammina, bisogna che sia tu a camminare per prenderlo e se c’è
qualcuno che te lo porge, allora tutto funziona meglio. Poi molto dipende dalle
condizioni di ciascuno.
Mi parli
della sua condizione…
Io
sono stato un fortissimo lettore anche per questioni mie, personali. Fino a
sette anni sono vissuto in campagna, a Castelnuovo Magra. Giocavo negli orti,
nei campi con i miei amici coetanei che, come me, erano figli della disgrazia, della
guerra da poco finita, con le macerie ancora intorno. La mia famiglia era
povera ma calda, estremamente protettiva. A sette anni mi sono trasferito in un
ambiente differente, più freddo, in città. A scuola ero in una classe dove
tutti erano figli di professionisti, mentre io ero l'unico figlio di operaio.
Così ho cominciato a leggere perché era il modo migliore e più proficuo per
andarmene da qualche altra parte. E con i libri che mi dava mio padre me ne
sono andato ovunque. Così poi ho iniziato a prendermene anche da solo, a
scegliermeli. E quando entravo in un grande romanzo sentivo che potevo essere
chiunque.
Nel suo
romanzo L’amore la sposa legge allo
sposo i libri, la sera…Visto che i cenni autobiografici ci sono, mi viene da
chiederle: succede anche nella realtà?
Si,
ci vedo male e non posso più leggere libri di carta. Di solito leggo i libri in
formato elettronico perché almeno li posso ingrandire. Ma siccome ci sono
ancora un sacco di libri di carta da leggere, allora me li legge mia moglie, la
sera.
L'ultimo
libro che avete letto insieme?
Un
saggio, molto ponderoso, sulla storia dell’Europa dal ’45 a oggi. In realtà
avrei potuto leggerlo anche in formato elettronico ma siccome interessava anche
a mia moglie lo abbiamo fatto insieme…Devo dire che è stata una lettura molto
impegnativa, però è stato importante. Lei, che è molto più giovane di me, non
ha vissuto alcuni momenti storici che invece io ho vissuto.
I Parchi Letterari
sono la realtà da cui prende vita questo magazine. Si tratta di ambienti che mettono
in connessione letteratura e territori. Le è mai successo di voler visitare un
luogo perché, magari, se ne parlava in un romanzo?
Naturalmente.
Adesso sto leggendo un libro in cui si parla delle cinque ex repubbliche sovietiche
dell’Asia centrale e ovviamente la prima cosa che mi viene in mente è di
andarci. Credo che non ci andrò mai perché sono troppo vecchio, forse, per
andare in quei posti. Ma del resto, anche quando ero bambino e leggevo Salgari,
volevo andare in India o in Afghanistan. Leggendo Dickens mi viene voglia di
andare a Londra…Credo stia in questo la differenza tra una buona letteratura e
una letteratura mediocre; nella capacità di stimolare la ricerca, la scoperta,
nel mettere in azione l'empatia non solo con gli uomini ma anche con i luoghi.
I territori
che lei vive e ha vissuto entrano nella sua scrittura.
Si
tratta della mia scelta. Si può fare teatro mettendo un attore al centro, in un
ambiente totalmente buio, con solo la faccia illuminata. E va bene…Però poi c’è
anche il teatro che è fatto di grandi palcoscenici, di grandi scenografie e
questa è la mia letteratura. Mi piace costruire dei grandi palcoscenici e
accogliere il lettore in questi paesaggi che devono essere per forza di cose il
più dettagliati possibile, sennò il lettore non sa dove stare, non trova il suo
posto.
Come ha
trascorso quest’ultimo anno, segnato dalla pandemia?
Questo
periodo lo vivo in una condizione di privilegio totale perché io vivo in
campagna, in una grande casa…E sono tornato bambino. La mattina, quando avevo
sei anni, me ne andavo per i campi, al fiume, a esplorare, a farmi strada fra i
rovi…Questo è quello che faccio oggi. Dopodiché è vero che son tornato bambino
ma sono tornato bambino solitario, che non è una bella condizione. Mi mancano
gli amici, mi mancano le relazioni, è insopportabile non toccare più le persone
a cui voglio bene e che ero abituato a invitare a pranzo. Io ho una grande
stima dell’offerta del cibo, ero abituato ad offrire il cibo ai miei amici.
Sta
scrivendo in questi giorni?
No,
fatta eccezione per gli articoli, in questo momento no. Ho appena finito un
romanzo che avevo iniziato a scrivere nell’ottobre del 2018 e mi è costato due
anni di lavoro. Si tratta di una storia leggendaria, una leggenda contemporanea,
una grande storia, di quelle di cui ho bisogno per riprendere a viaggiare, per
riprendere ad avere empatia con le persone sconosciute che si incontrano per la
prima volta in un libro, come in una strada.
Una
curiosità. Dove si trova in questo momento?
Sono
in cucina, dove passo gran parte del mio tempo quando sono in casa. Ho messo
fuori le cose per preparare la cena perché in questa casa cucino io. Ho appena
cambiato l'acqua in un vaso dei fiori che porterò nello studio…
Ho
sempre bisogno di avere attorno qualcosa di vivo.
Le fotografie che ritraggono Maurizio Maggiani sono di Gloria Ghetti che ringraziamo di cuore
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