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Alfonso Piccolomini, duca e bandito

20 Aprile 2021
Alfonso Piccolomini, duca e bandito
Mai come alla fine del ‘500 il fenomeno del banditismo assunse proporzioni così imponenti da contrapporsi al Papato, alla Spagna e al Granducato di Toscana e da divenire strumento di ricatto nella politica internazionale.

"E' tempo di schiudere la quiete, il sepolcro del chiaro bandito, rompendo l'oblio ossidato che ora l'interra." (Pablo Neruda) 

 Il filo conduttore della vita avventurosa e tragica di Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano, sono le passioni, le più variegate passioni dell'uomo e del condottiero vissuto in un epoca sanguigna ancora estranea alla "ragion di stato", quale fu la seconda metà del '500 in Italia. Alfonso visse in piena Controriforma, durante la quale il Papato intendeva riaffermare tutto il suo potere spirituale e temporale contro la riforma di Lutero. Tutto ciò provocò una violenta reazione del popolo e soprattutto dell' aristocrazia, fatto questo indicativo di come la convergenza di interessi tra classi diverse sia sempre stata la spinta a muovere la storia in senso rivoluzionario. Mai come alla fine del Cinquecento il banditismo assunse, infatti, proporzioni così massicce e inquietanti da contrapporsi al Papato, alla Spagna e al Granduca di Toscana, Ferdinando de' Medici, prima cardinale alla corte pontificia. Una nuova aristocrazia famelica e decisa a tutto intendeva imporre alla vecchia nobiltà la sua egemonia economica. Si trattava di una sorta di rivoluzione durante la quale dinanzi alla politica accentratrice dei Pontefici si ribellò Alfonso Piccolomini divenendo il condottiero più temuto del suo tempo.

 E' attraverso una lunga e complessa ricerca archivistica che ho scoperto lettere e documenti in parte inediti del XVI secolo da cui ho delineato il ritratto di questo personaggio di nobilissima stirpe, liquidato con sufficienza e quasi orrore come un famigerato bandito, di cui cancellare ogni traccia, compresi i ritratti. Nato ad Acquapendente nell'alto Lazio, duca di Montemarciano e di Camporsevoli, pronipote di Enea Silvio Piccolomini, il coltissimo Papa Pio II che trasformò il borgo natio Corsignano nella splendida cittadina rinascimentale di Pienza ad opera del Rossellino, Alfonso, si può affermare che avesse succhiato con il latte materno la consapevole arroganza della sua nascita illustre. Da parte di madre era imparentato infatti con gli Orsini di Pitigliano, ugualmente di nobilissimi natali il padre Giacomo Piccolomini. Rimasto orfano giovinetto, la sua tutela fu affidata alla nonna, Elena Sforza di Santa Fiora e allo zio paterno Scipione Piccolomini che viveva a Siena. 

 Considerato l'alto lignaggio, l'influenza alla corte pontificia e in quella dei Medici a Firenze, inizialmente, tutti concordarono che questo bel giovane, generoso e cavalleresco, valente guerriero avesse davanti a sé malgrado le scarse risorse economiche, un brillante avvenire. Non a caso si sposò a vent'anni a Pesaro con il benestare e la presenza dell'amico Francesco II della Rovere, duca di Urbino, con Ippolita Pico della Mirandola, figlia naturale del cardinale Ippolito de'Medici. Più grande di lui di qualche anno, ma bella e ricca, da cui ebbe un'unica figlia di nome Vittoria. 

 Come in un avvincente romanzo d'avventura ricco di intrighi e colpi di scena in cui frammenti di verità dispersi trovano la loro sintesi nella vita dei numerosi personaggi che il giovane duca ebbe modo di incontrare, ad un certo momento la sua esistenza prese una piega diversa, contraddittoria e drammatica. Erano anni quelli di inevitabili spietatezze e più o meno nobili rischi. Alfonso era di carattere impulsivo e privo di costanza, fantasioso anche, perché confuse spesso la realtà con le speranze, le intenzioni con la possibilità reale di realizzarle. In una parola non riuscì a tradurre in forza politica lo smanioso e vivo senso delle sue indiscusse prerogative aristocratiche. Si sentiva un principe e come tale non ammetteva sottomissione o rifiuti. 

 La presenza di un Papa come Gregorio XIII che "agendo secondo l'astratta assolutezza giuridica" ritenne di poter risolvere il problema delle casse pontificie ripristinando alcuni diritti feudali caduti in disuso, scatenò una situazione di disordine fuori controllo. Il Pontefice si era accorto infatti che l'aristocrazia aveva approfittato nei decenni di tutta una serie di situazioni irregolari quali tra l'altro il mancato pagamento delle imposte. Perché dunque si chiese non intervenire? "Questo Papa si chiama il vigilante, diceva il cardinale di Como, Egli vuole vegliare e riottenere ciò che è suo." Ma i grandi baroni romani, gli Orsini, i Colonna, i Cesarini, gli Sforza, i Savelli e la restante nobiltà dello Stato pontificio reagirono violentemente ritenendo le sue iniziative un attentato alla loro stessa sopravvivenza. Ugualmente il Piccolomini a cui Gregorio XIII non aveva esitato, accusandolo di connivenza con avventurieri privi di scrupoli, a confiscargli il ducato di Montemarciano nelle Marche dando ordine di distruggere il suo castello. La reazione di Alfonso fu immediata e incontenibile rivendicando con forza una piena autonomia di condotta. C'era ampio spazio per combattere, tanti nobili, amici della Marca e della Romagna presero le armi pronti a schierarsi a suo fianco, a combattere fino alla morte prima di soggiacere alla "signoria sempre più insolente de' preti"; dietro di loro una massa eterogenea di individui: delinquenti comuni, contadini affamati, esiliati per motivi politici, religiosi, soldati disoccupati. 

 Era la primavera del 1579. Per l'ingiusta spoliazione di cui Alfonso era stato vittima l'opinione pubblica contemporanea fu tutta dalla sua parte. Il Papa voleva umiliarlo? Ebbene egli non avrebbe ceduto, si sarebbe vendicato con tutte le sue forze. Dalle parole passò subito ai fatti. Il suo primo atto di guerra fu la strage di Montalboddo, l'odierna Ostra nelle Marche, paese dei Gabuzi che lo avevano denunciato al Pontefice. La feroce spedizione punitiva, tra l'altro esaltata da un cronista dell'epoca, scatenò una lotta senza quartiere, una guerra sgangherata e sparpagliata che durò alcuni anni e i cui confini geografici si dilatavano tra la zona di Pienza, delle campagne senesi e aretine fino alle Marche, all'Umbria, all'alto Lazio. Risultò tanto costosa da rovinare in parte l'erario pontificio e anche l'umore del Papa che ci si trovò dentro fino al collo a dispetto della sua ripugnanza per le imprese guerresche e la sua "saturnina" predisposizione a vivere tranquillo. Non si sapeva mai con precisione dove si trovassero gli eserciti di entrambi le parti anche perché Alfonso rivelò una rapidità di movimento e una capacità strategica fuori del comune sbaragliando o sfuggendo le truppe pontificie molto consistenti ma, costituite in gran parte da mercenari feroci con la popolazione e codardi con gli avversari. Una lotta implacabile che si risolse nel primo round a favore del giovane duca che con imperturbabile noncuranza si faceva beffe delle scomuniche papali e delle condanne a morte in contumacia. 

 Lo affiancavano e gli davano sostegno potenti amici quali il Granduca Francesco I di Toscana e a Roma il temibile e scaltro cardinale Ferdinando de' Medici. Anzi con quest'ultimo si era instaurata una singolare e stretta amicizia, come si evince dalle numerose lettere che si scambiarono. Alla testa di circa cinquecento uomini il nostro condottiero "invincibile" dai lunghi capelli al vento "havendosi lasciato crescere li capelli...", scorrazzava, incutendo grande paura a tutti i suoi nemici, da un confine all'altro dello Stato della Chiesa e della Toscana. Osò persino avvicinarsi a Roma, rendendo malsicuri i luoghi intorno a Prima Porta e a La Storta dove si rifocillava e si fermava al cambio di posta dei cavalli, sempre accolto favorevolmente dal popolo. La sua sicurezza, la sua ferma determinazione indussero i parenti e la nobiltà romana a pensare che avrebbe avuto successo in questo singolare, drammatico braccio di ferro con Gregorio XIII. E così fu. 

 Nel 1583 gli fu concesso il perdono. Gli furono tolte la scomunica e la taglia. A titolo di risarcimento ottenne 3700 scudi. A Roma fu ospite con la moglie presso il cardinale Ferdinando de' Medici nel magnifico palazzo detto "Fiorentino" a Campo Marzio *. Trionfale fu l'accoglienza che gli manifestò l'aristocrazia romana. Non meno successo ebbe a Firenze, ospite dei Neri e ricevuto dai più notabili della città. Tutto faceva ben sperare. Decise così anche per rimpinguare le sue scarse finanze di tentare l'avventura in Francia come molti condottieri dell'epoca. Partì dunque per Parigi dove fu accolto con tutti gli onori da Caterina de' Medici e da Enrico III, re di Francia. Disgraziatamente fu un successo effimero anche per la travagliata situazione all'interno della capitale. Si scontrò dopo poco tempo per una mancata promessa con Enrico III; passò dalla parte dei Guisa, allora potentissimi, ma anch'essi insinceri come l'acqua fangosa, facendo infuriare ancora di più il sovrano. Infine temendo un agguato, un tranello "alla Borgia", privo ormai di soldi, rabbioso e collerico come'era, nel giro di alcuni mesi rientrò in Italia. 

 Il suo ritorno non mutò di una virgola l'atteggiamento di papa Gregorio XIII, ma destò molte preoccupazione nel duca di Urbino che non esitò a inventare false notizie sul suo conto scatenando la sua giusta ira e riprovazione. Alfonso tuttavia aveva imparato come si faccia presto a compromettersi con la vita e comprendendo che questa rivalità non appassionava nessuno, smorzò la sua ostilità e stabilitosi a Pienza si dedicò con ardore a servizio di Francesco I e del cardinale Ferdinando nella caccia ai banditi che agivano nel territorio senese ed altro. La svolta decisiva che mutò il corso del suo destino è collegata all'inquietante morte del Granduca di Toscana e della moglie Bianca Cappello a distanza di tre giorni l'uno dall'altro nella splendida villa di Poggio a Caiano che dominava Firenze. Questi i prodromi.

 Il cardinale Ferdinando aveva cominciato a spargere a Roma alla corte pontificia e nei magnifici saloni dei palazzi dell'aristocrazia insinuanti e malvagie chiacchiere ridicolizzando soprattutto la cognata. Francesco I informato dal suo segretario Antonio Serguidi delle molteplici maldicenze che circolavano sul suo conto, com'era nel suo carattere brusco e diretto, aveva aspramente rimproverato il fratello e malgrado i ripetuti giuramenti di fraterna fedeltà di Ferdinando, aveva interrotto ogni rapporto. Già in precedenza c'erano state tensioni tra i due fratelli per la vita dissoluta, trascorsa in un vortice di peccati inaccettabili del cardinale Ferdinando tali da scandalizzare non solo il Pontefice ma, anche la plebe di Roma. 

 Francesco I l'aveva sempre aiutato pagando anche i suoi ingenti debiti di gioco ma, stavolta il limite era stato superato. Avvenne tuttavia che dopo un lungo periodo di perplessità, dinanzi a gridate manifestazione di affetto da parte di Ferdinando, Francesco I soprattutto per l'insistenza di Bianca, che non aveva capito di quale bassa lega fosse fatto il cognato, decise di riprendere i rapporti interrotti con il fratello. Non l'avesse mai fatto! 

 La riconciliazione avvenne a Poggio a Caiano in un soleggiato ottobre dell'anno 1587. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quel luogo sereno dove i Granduchi trascorrevano le loro giornate fra svaghi, feste e battute di caccia, diventasse teatro di un duplice omicidio. Proprio questa drammatica vicenda di cui a lungo si parlò perché lo stesso Sisto V fece chiaramente intendere che nutriva fondati sospetti sul cardinale Ferdinando, è strettamente legata alla fase discendente della vita di Alfonso. 

 Non si possono infatti leggere senza turbamento i disperati appelli che il duca Piccolomini inviò al suo vecchio amico cardinale, divenuto da un giorno all'altro Granduca di Toscana, per chiedergli un incontro chiarificatore. Viceversa quest'ultimo congedò seccamente Alfonso senza riceverlo ma insultandolo apertamente. "Di Alfonso Piccolomini è da trattare come di persona che non sia per riuscire in cosa che intraprenda...". Il verdetto era stato pronunciato. Certo Alfonso in quel momento non poté che pensare come l'animo umano sia tra tutti i paesaggi quello più misterioso e imprevedibile. Sdegnato dall'atteggiamento del nuovo Granduca di Toscana, il duca si era allontanato da Pienza scegliendo nuovamente la via della ribellione. Era l'anno 1589, non solo a Roma ma in tutta Italia la situazione sociale e politica era completamente mutata. Il clima di ribellione che aveva caratterizzato il periodo precedente si era attenuato. Sisto V aveva ridimensionato le velleità dell'aristocrazia feudale dello Stato pontificio concedendo senza parsimonia titoli nobiliari e soprattutto accantonando la discussa revisione attuata dal precedente Pontefice sui titoli giuridici dei feudatari della Santa Sede. Il risultato era stato eccellente, ma non per il nostro duca poco incline ad inchinarsi supinamente ad un potere sempre più centralizzato altrettanto prevaricatore e prepotente. 

 Stanco, prostrato dalle difficoltà economiche e travagliato dai dubbi, Alfonso si era reso conto che una riconciliazione con il Granduca di Toscana si profilava impossibile. Cominciò allora in lui a ridestarsi la spinta alle risoluzioni disperate. Dalla sua parte c'era la popolazione afflitta da una terribile carestia che negli anni 1590-91 si era diffusa in tutti gli Stati italiani. Si sentiva isolato con il seguito di uomini a lui fedeli, ritenne perciò opportuno cercare un appoggio potente e in quel momento solo gli spagnoli potevano offrirglielo. "Onde egli girando et praticando in diverse parti finalmente fece quella bella risoluzione", scriveva Ferdinando I al cardinale di Como. Ovvero passò dalla loro parte segnando così il suo destino perché da suddito colpevole di condotta insubordinata era divenuto un traditore; aveva osato sfidare il Granduca di Toscana perché niente aveva da farsi perdonare come aveva dichiarato, se non forse il fatto di essere a conoscenza di segreti inconfessabili che, quindi, tanto meno essendo un duca avrebbe rivelato. Parole troppo audaci per un condottiero con un grosso seguito ma senza ducato e denari. Fino alla fine nella sua rocambolesca e disperata fuga non capì chiaramente il motivo dell'incessante e furiosa persecuzione nei suoi confronti dell'antico amico Ferdinando I. 

 Bisogna pur dire che pochi condottieri nella storia come il duca di Montemarciano hanno combattuto con tanta ostinazione e coraggio contro nemici ben più forti e agguerriti di lui. Così alla fine la sua bravura rivelatasi negli anni precedenti sfumò nel nulla. I suoi tentativi si imbrogliarono infatti in un groviglio di pretesti, contrattempi fino a trasformarsi in pura illusione. Di sicuro Alfonso possedeva la stoffa del grande capitano, capace di imprevedibile generosità quanto di vendette spietate. Non a caso la sua figura ardita e impetuosa aveva colpito la fantasia popolare ed era opinione diffusa che si fosse ribellato per essere stato trattato ingiustamente. Fu amato dai suoi soldati che lo seguirono ovunque e stimato dagli spagnoli che pur lo temevano. Dinanzi a personaggi come lui, dimenticati e inghiottiti nel buco nero della storia si può concludere con le parole di Sandro Lombardi nella presentazione della biografia di Alfonso: "Vanno dunque considerati come dei semplici criminali o dobbiamo azzardarci a vedere in essi dei rivoluzionari alle prese con la necessità di affermare nuove strutture politiche?". 

Paola Benadusi Marzocca


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