Sulle orme di una letteratura che del viaggio ha fatto una filosofia, Ginevra Sanfelice Lilli ripercorre le tappe di un doppio attraversamento degli Stati Uniti, da Washington D.C. a San Francisco e ritorno, in un mese e mezzo, nell’estate del 1989 con la sua famiglia, in un grande camper. Dodicimila chilometri, quattro figli e per la maggior parte del tragitto due donne al volante.
Da un dialogo scritto da Jack Kerouac, nel suo On the Road: “Dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo. – Per andare dove, amico? – Non lo so, ma dobbiamo andare”. Spesso non ci si fanno troppe domande prima di partire e a volte troppe.
Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia speciale il cui spirito era molto simile a questo, e noi quattro figli (come si diceva da tifosi della ‘Magica’, ovvero della squadra di calcio della Roma), abbiamo macinato chilometri, superato gli ostacoli fin da piccoli grazie ai nostri genitori. E non solo chilometri, anche molte miglia marine.
La storia delle nostre avventure è lunga. Alla mia prima tempesta in barca a vela ero in culla, a bordo con mio padre, ufficiale di Marina, mia madre e altri amici; a mano a mano che noi quattro crescevamo, l’Italia e il mondo, con i nostri genitori al volante o al timone, sembravano quasi stretti. Da Roma alla Puglia, da Roma al Friuli, a Londra. Fino a Strasburgo quando mi portarono in treno: mia bisnonna, mia nonna, mia madre ed io neonata (avevo appena compiuto dieci giorni). Quattro generazioni in uno scompartimento.
Ogni spostamento in macchina era una festa, inframezzata dai moniti di mia madre quando ci rendevamo insopportabili. Si sentiva: ‘basta, io vado a Kathmandu e non torno mai più’. A Kathmandu che io sappia non fuggì mai lasciandoci soli, e siamo invece partiti, nel 1989, a vivere per tre anni negli Stati Uniti tutti e sei: mio padre, come ‘attaché navale’ con mia madre, le mie due sorelle, mio fratello ed io.
Il viaggio che ricordo con più piacere è stato, nell’estate del 1989, il lento procedere a cinquantacinque miglia all’ora in quella che è la grossa, vasta pancia statunitense: da Washington D.C. a San Francisco e ritorno in camper in un mese e mezzo. Un doppio attraversamento in un camper (van) Uhaul da sette posti letto. Mia nonna Giulia e mia madre Claudia guidavano e si orientavano con una cinquantina di diverse mappe stradali (era appena uscito il GPS, che non utilizzavamo). Ricordo ancora i loro gesti, e le esclamazioni mentre aprivano, piegavano e ruotavano in aria ridendo, o discutendo, questi enormi mappe.
Noi quattro eravamo liberi di passare il tempo come volevamo. Ascoltavamo la musica, leggevamo, scrivevamo, disegnavano e scherzavamo e ci bisticciavamo.
Quando, dopo avere superato Chicago, nella prima sosta del viaggio si presentò la necessità di fare un bucato ci rendemmo conto di non sapere come stendere tutti i nostri vestiti. Presto a mia nonna venne l’idea: una fune legata al camper e, in assenza di mollette per i panni, infilammo tutti gli abiti dentro le maniche, i colli, dentro le gambe dei pantaloni, tutto fluttuava sopra il fiume Mississippi.
Giorno dopo giorno intanto i ‘grandi’ guidavano, ascoltavamo la radio, cucinavano (avevamo a bordo un forno a microonde, e anche un lavandino, frigorifero e ancora stanza da letto matrimoniale con bagno en suite). Nello spazio centrale del grande camper che mi faceva pensare a un’astronave, c’erano altri cinque posti letto un grande tavolo e poi il posto di guida e con esso due file di sedili e la radio! Ho sempre pensato che oltre quelle immense finestre del camper scorresse un lunghissimo programma televisivo, come se noi per una volta fossimo chiusi in una scatola (che normalmente è la forma della televisione) e potessimo stare tranquillamente seduti per più di un mese vedendo lenti cambiamenti di paesaggi, di situazione, di clima, di colori senza usare un telecomando, al suono del nostro procedere sulle immense autostrade statunitensi.
Questa è stata l’unica esperienza di viaggio in camper che abbia mai fatto e davvero gli Stati Uniti si prestano a con i loro spazi sconfinati a questi viaggi, avendo tempo a disposizione.
Ricordo di avere chiesto a bordo, un pochino stanca: “Dove siamo?”, risposta: “guarda fuori dalla finestra, cosa vedi?”, io: “mucche, mucche solo mucche”, “e allora dove siamo secondo te?”, io: “Texas!”. La geografia era alla portata dei nostri occhi, lì, concreta. Dal deserto bianco di sale di Salt Lake City, accecante e in contrasto con il cielo blu dello Utah, all’enorme bisonte libero che si grattava ad un piccolo albero che si piegava sotto il suo peso nello Yellowstone National Park, proprio mentre noi, pochi distanti, preparavamo un barbecue.
Quello scorrere di ore, ore e giorni e giorni e il tempo dilatato nella noia delle lunghe ore di viaggio è un ricordo prezioso. La strada che scorreva sotto le gomme, la meraviglia di quelle terre così forti, della natura imperante, per noi che venivamo da un paese che, al rientro, mi sembrò una miniatura persino nelle dimensioni dei tovaglioli che utilizzavamo a tavola. La strada si dispiegava davanti a noi come un tapis roulant, ricordavo con mia sorella Sofia, e finiva in un puntino lontano come nel gioco di una prospettiva infinita. E come scrive Henry Miller, dopotutto “La propria destinazione non è mai un luogo, ma un nuovo modo di vedere le cose” e, ascoltando anche Mark Twain:
"Il viaggio è fatale al pregiudizio, al bigottismo e alla ristrettezza mentale, e molti di noi ne hanno estremamente bisogno proprio per questo motivo. Le vedute ampie, sane e buone non possono essere acquisite vegetando tutta la vita in un piccolo angolo della Terra".
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Fotografie di Claudia Cornaggia