“Τρείς βράχοι, λίγα καμμένα πεύκα και ενα ρήμοκληση…”
“Tre scogli, pochi pini riarsi e una chiesetta solitaria…”
Georgios Seferis “Μποτιλία του πελαγου”
Poche parole; ed ecco, nei primi versi di questa sua poesia, il grande Seferis, premio Nobel, ci offre, distillata, l’essenza del paesaggio Egeo. Una specie di archetipo topografico che si ritrova, infinitamente costante e infinitamente vario, in cosi tanti luoghi del nostro Mare di Mezzo, specialmente verso Oriente e dove cosiddetti sviluppi edilizi e devastazioni varie lasciano ancora un po’ di tregua alla bellezza e allo spirito dei luoghi. Sono le spiagge “bianche come colombe” di un’altra opera dello stesso Seferis, “Άρνηση” (Rifiuto), i lidi dalle sabbie dorate sui cui “scrivemmo il suo nome” (della bellezza? Della libertà?) che poi un vento impetuoso cancella. Fuori dalla baietta il mare scuote i suoi capelli ricci (e qui parla un altro autore, l’inglese Lawrence Durrell), e almeno quest'oggi tiene nascoste chissà dove le calme acque dei giorni di bonaccia.
Se poi alla chiesetta solitaria si sostituisce un solitario tempietto, è facile immaginare che sia questo stesso paesaggio ad accogliere Ulisse quando per riposare approda in questo o quel lido, al termine di una dura navigazione durante il lungo ritorno alla sua Itaca. Il “mare color del vino” di Omero, eccolo qui ( e lui stesso forse sta componendo la sua opera all’ombra di quel tamericio, ispirato dal ritmo delle onde).
Inoltrandosi dietro la sottile striscia di sabbia o di ciottoli, come senza dubbio avranno fatto i marinai Achei alla ricerca di acqua dolce, oltre i cespugli, i pochi pini, gli agnocasti e oleandri (magari fioriti), presto si trovano i primi muretti a secco, i primi olivi. Le colline si schiudono a destra e sinistra del letto asciutto del torrente, spesso impervie e secche e sassose; si definiscono via via, una successione di terrazzamenti strappati alla montagna da secoli e secoli di fatica, a ricavare campi abbastanza pianeggianti per coltivare qualcosa: grano? Uva? Altrove, dove il terreno è troppo ingrato o dove i vecchi muretti abbandonati sono crollati, c’è la cespugliosa, spinosa macchia, profumata di salvia e di timo, regno delle capre; e fioritissima in primavera.A sorpresa, in qualche piega e vallicella si incontrano dei boschetti di pini, di querciole, di platani e mirti persino, se c’è dell’acqua; dei piccoli eden preannunciati da un certo modo del vento di cantare tra le chiome.
L’ombra è freschissima e miracolosa, come il refrigerio dell’acqua che un pastore attinge per me ad uno dei rari pozzi, protetto da una vera di pietra liscia che forse è qui dal neolitico.
“La terra ti dà tutto”, mi dice la vecchia signora che tiene l’emporio del villaggio, ricordando quando viveva proprio in quelle terre che oggi sembrano perlopiù abbandonate. “Ah, facevamo grano, certo, e le olive, le mandorle, e tenevamo animali, e mio nonno coltivava l’orto. Bastava dare acqua, e che cetrioli! Che zucchine! E le barbabietole, e le cipolle! La terra ti da moltissimo, se te ne curi”. Le chiedo se non era una vita dura, difficile. Così tanti sono andati via, alla una comprensibile ricerca di una esistenza migliore. “Certo, mi risponde. Molto dura; vivevamo, senza niente di troppo. Ma quelli che sono andati via ad Atene o in America, dimmi, sono forse più felici? Sanno chi sono?”. Partire, restare… Di certo non furono mai scelte facili.
Questo paesaggio, così segnato da millenni di paziente, rispettoso lavoro dell’uomo e dalla realtà di una natura aspra e bella, tocca qualcosa di profondamente ancorato in molti di noi che una volta o l’altra abbiamo visitato questi luoghi. Cosi come ha nutrito ed ispirato così tanti scrittori, e poeti ed artisti. “Di te amore m’attrista/mia terra, se oscuri profumi/perde la sera d’aranci/ o d’oleandri…”, scrive della sua Isola un altro premio Nobel, Salvatore Quasimodo.
Qui affondano delle nostre radici che talora non si sospetta neanche di avere; delle radici culturali ed esistenziali che probabilmente si ignorano a proprio rischio, quello di un disumanizzante inaridimento. C’è qualcosa di eterno nel profilo delle isole al crepuscolo, scure e quasi viola contro il mare blu notte, qualcosa di sacro, potremmo dire, nelle linee dei terrazzamenti e dei muretti a secco che sposano armoniosi le colline e le montagne; i villaggi più antichi sono grappoli di case costruite a mano con tecniche secolari e materiali del posto, adagiati nel paesaggio, dolce o aspro che sia, quasi fossero cresciuti dalla terra stessa. Forse per questo è così scioccante vedere tutto ciò sfigurato da frettolosi manufatti umani più recenti, da costruzioni sgraziate e senz’anima. Certo le cose cambiano, come è sempre successo; ma su queste coste in particolare sarebbe necessario esercitare una estrema attenzione, imporla persino, dove necessario; e questo avviene troppo raramente, purtroppo.
Eppure, se oggi può sembrare sempre più difficile trovare lidi intatti e solitari o luoghi che abbiano serbato una loro armonia, pochi passo verso l’interno o fuori dalle strade prinicpali spesso bastano a portarti oltre una soglia, in un luogo dove il tempo si è fermato. Sulle spiagge di Omero.
Valentina Ivancich Biaggini
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Immagine di copertina di Valentina Ivancich