Sono le 11.45 circa del 1° Marzo 1932. Per setticemia acutissima, dopo un'agonia di sei ore, muore il poeta Dino Campana. Dal 1918 era ricoverato all'ospedale psichiatrico di Castel Pulci nei pressi di Badia a Settimo. Autore di un solo libro - i Canti Orfici -, Campana non s'era visto riconoscere dalla critica del tempo. Anzi, più volte lo avevano trattato come "irregolare", come figura strampalata e vagabonda. Eppure più tardi, dieci anni dopo la sua morte, alcuni scrittori - come Gatto, Montale, Bo, Falqui, Luzzi, e il pittore Rosai - lo inseriscono di dirittto nella Poesia italiana del '900. "Poesia in fuga [...] che si disfà sempre sul punto di concludere", così la definì Eugenio Montale, l'opera di Campana si riconsegna oggi al posto che merita nell'"aerea del tempo", di cui, rileva Sergio Solmi, "egli fu ben figlio, come ogni vero poeta non può che essere, in carne e sangue, figlio del suo tempo".
A Marradi, ultimo comune toscano prima della pianura romagnola, il 20 agosto 1885 nasce Dino Campana, figlio di Giovanni maestro elementare, e di Fanny Luti, donna "sana, energica, intelligente e risentita". Fin dall'inizio la madre mostra per il primogenito un certo disinteresse; poi un'accentuata avversione, cui non poco si deve se egli nell'avvenire trasse da sé uno spirito ribelle e conturbato.
"Nel 1900 mio figlio incominciò a dar prova di impulsività brutale, morbosa, in famiglia e specialmente con la mamma" dirà il padre al direttore del manicomio di Imola. Intanto compie l'intero percorso di studi fino al diploma, studia con risultati alterni. Irrequieto, scontento, incontra le prime noie. Per sua testimonianza, mai documentata, è carcerato a Parma per un mese intero.
"Quando tornai a Marradi mi deridevano, mi arrabbiai e divenni nevrastenico. Poi cominciai a viaggiare; sissignore, viaggiavo molto. Ero spinto da una specie di vagabondaggio. Una specie di instabilità mi spingeva a cambiare continuamente". Campana, sempre un libro o due sotto il braccio, schivo e silenzioso, attira subito l'attenzione malevola dei concittadini. Viene, perciò, esposto alla maldicenza e alla derisione sguaiata. Ogni cosa, piazza, strada o persona di Marradi diventa così per lui fonte di solitudine; e soltanto il paesaggio circostante, dove si rifugia a leggere, gli concede brevi attimi di serenità.
"L'acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù steso nell'erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta della infinità delle morti!... Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come l'acqua scorre immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora profonda e uguale: conservando il silenzio come ogni giorno l'ombra... Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere".
Nel 1903 Dino Campana lascia Marradi e si iscrive al primo anno di Chimica pura a Bologna, che poi lascerà per Chimica farmaceutica a Firenze. "Io studiavo chimica per errore e non ci capivo nulla. Non la capivo affatto. La presi per errore, per consiglio di un mio parente. Io dovevo studiare lettere. Se studiavo Lettere potevo vivere. Le lettere erano una cosa più equilibrata, il soggetto mi piaceva, potevo guadagnarmi da vivere e mettermi a posto. La chimica non la capivo assolutamente, quindi mi abbandonai al nulla"; "Non riuscivo in chimica, - confesserà ancora a Pariani; - E allora mi diedi un po' a scrivere e un po' al vagabondaggio".
Proprio quando stanno iniziando le prime prove di Campana poeta, il 10 maggio 1906 si fa più acuta la sua nevrastenia. Gli viene diagnosticata "una forma psichica a base di esaltazione" per cui si rende necessario "riposo intellettuale, l'isolamento affettivo e morale, e l'uso di preparati bromici". Invece Dino sparisce: "Prendo il partito dei più deboli, - scriverà dieci anni più tardi a Sibila Aleramo: - il mio solito partito, parto". Sa probabilmente che al compimento dei ventun anni, dovrà piegarsi alla legge e al verdetto medico. E ne ha paura. Inizia i suoi primi viaggi verso Nord:
"Sentii che in quel treno fuggiva la mia vita! Vi balzai su, e non avendo che due soldi in tasca, mi nascosi nel gabinetto e mi vi chiusi fino a Milano" racconterà a Bejo, dopo aver osservato un giorno alla stazione di Bologna un treno in partenza. Poi passa in Svizzera a piedi, nel Cantone Ticino, senza passaporto, "povero, ignudo, felice di essere povero ignudo". Ma alla fine ricompare in Italia dopo qualche tempo.
Nel mese di settembre del 1906, ormai maggiorenne, scortato dai gendarmi Dino Campana prende il treno che lo porterà al manicomio di Imola. Qui la diagnosi è di "esaltazione psichica. Impulsività e vita errabonda"; e qualche anno più tardi nel 1909 si annoverano fra le cause dei suoi disturbi: "Eredità - Alcolismo". La diagnosi, pur sotto forma dubitativa, è di "demenza precoce", cioè schizofrenia.
Inizia per lui il lungo e doloroso itinerario che neppure la sua poesia visionaria riuscirà a consolare.
"[...] Ormai la vena è aperta, arido e rosso velo del mondo" dirà nei suoi versi.
Dopo il ricovero al manicomio di Imola, Campana abbandona gli studi universitari e compie un breve viaggio in Francia. Quando ritorna a Marradi l'ambiente familiare gli mostra rara cordialità, e non diverso appare l'atteggiamento del luogo natio. Gli è gradito soltanto, come sempre, l'amato paesaggio dell'infanzia: il grande paesaggio delle sue prime fughe nella natura, che saranno d'ispirazione ai Canti.
Questa irrequietudine o "vertigine" evocata costantemente dal poeta è il richiamo di un viaggio più lungo, sognato forse fin dall'infanzia sui libri di scuola, e riscoperto successivamente nei racconti di qualche emigrante. Campana decide di andare in Argentina, a Buenos Aires. In questo desiderio il padre scorge la possibilità di un recupero e appoggia il figlio.
Accompagnato dallo zio paterno Torquato, Campana si reca a Genova per l'imbarco: porta con sè una valigia, un pacco di libri (con sé ha già Leaves of Grass di Whitman e il suo quaderno probabilmente coi primi versi), si procura una rivoltella. (Il viaggio in questione viene messo in discussione da alcuni; tra cui Ungaretti, ad esempio, il quale afferma che Campana in Argentina non ci andò neppure e inserisce il viaggio nella mitologia campaniana). Ma le testimonianze dei parenti avallano la vicenda e suoi componimenti come Pampa, Viaggio a Montevideo, Dualismo, Passeggiata in Tram in America e ritorno, offrono concrete referenze.
"Una più vasta patria il destino ci aveva dato" scrive Campana l'emigrante: "Una terra selvaggia e buona dove l'uomo libero tende le braccia al cielo infinito non deturpato dall'ombra di Nessun Dio".
Dopo i primi mesi in Argentina, irrequieto come sempre, Campana già sente il desiderio di prendere un battelo che lo riporti in Europa. Intanto nell'attesa deve arrangiarsi con cento mestieri.
"Si faceva per vivere: facevo il suonatore di triangolo; sono stato portiere in un circolo di Buenos Aires; facevo tanti mestieri. Sono stato ad ammucchiare i terrapieni delle ferrovie; ho fatto il poliziotto, ossia il pompiere. Suonavo il piano nei caffè dell'Argentina, quando non avevo denaro" racconta il vagabondo.
Un giorno nel maggio del 1908 si presenta l'occasione del ritorno: "Stiedi cinque anni in Argentina. A Buenos Aires mi imbarcai su un bastimento inglese per raggiungere il Belgio. Lavorai per traversare l'Atlantico, facevo il marinaio; così guadagna il passaggio. Sbarcai in Anversa, andai a Parigi e da Parigi venni al mio paese".
E' durante questo soggiorno, presso Campigno, che Campana comincia a riordinare il primo nucleo di prose e frammenti di poesie attorno a cui si formeranno i Canti Orfici. "Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile a valle riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l'acqua, l'elemento stesso, la melodia docile dell'acqua che si stende tra le forre all'ampia rovina del suo letto, che dolce come l'antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali. [...] Così conosco un musica dolce nel mio ricordo, senza ricordarmene neppure una nota. So che si chiama la partenza o il ritorno".
Purtroppo nell'aprile del 1909 è nuovamente ricoverato, anche se per solo diciotto giorni, in una clinica psichiatrica a Firenze.
Il 5 settembre del 1910, ormai dimesso, il peregrino sale attraverso i boschi lungo i sentieri di montagna, fino al monte della Verna, al santuario francescano "tra il buon odore casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti toscani"; il viaggio di andata e ritorno dura una decina di giorni. Prima di rientrare Campana si stabilisce presso una casa di contadini dove con tutta probabilità scrive versi e prosa: "Sono capitato in mezzo a buona gente. La padrona zitta mi fa il letto aiutata dalla fanticella. Monotona dolcezza della vita patriarcale" scrive in questa occasione. Nella stanzetta di montagna, annotando con febbrile serenità, Campana si dedica alla ricerca del suo stile, quello stile che, come afferma Sergio Solmi "s'afferma nel momento in cui lo stesso colore si dilata e si intensifica, e la frase e la parola si sfanno in musica".
Altre peregrinazioni: Bologna, La Spezia, Sardegna; e soprattutto Genova che rimane per lui la città del grande viaggio oltreoceano, la città-simbolo dei suoi amori struggenti e mercenari, la città dove la "grande luce mediterranea si è fusa in pietra di cenere". In Crepuscolo mediterraneo scrive: "Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi [...], le tue vie tortuose di palazzi". A Genova e alle sue donne Campana dedicherà molti versi, tra i più famosi del suo libro. Ma il cuore è altrove; inevitabile il suo continuo ritorno a Marradi dove ogni ritorno è una ferita, un'altra piaga.
"Allora fuggì sui miei monti, sempre bestialmente inseguito e insultato. E scrissi in qualche mese i Canti orfici, includendo cose già fatte. Dovevano essere la giustificazione della mia vita, perché io ero fuori della legge".
Nell'autunno del '13 Campana scende a piedi a Firenze; in tasca ha il manoscritto delle sue poesie che allora portavano un doppio titolo, Il più lungo giorno e Come puro spirito varca il ponte. Per un giudizio si rivolge a Papini che dirige assieme a Soffici la rivista Lacerba. I due scrittori leggono il manoscritto, ma non si pronunciano sull'opera e dimenticano Campana, che pur marginalmente partecipa al movimento futurista. Lo dimenticano a tal punto che Soffici smarrisce il manoscritto, il quale verrà rinvenuto nella sua casa solo negli anni '70, sommerso da scartoffie di lavoro.
Quando il poeta si accorge della negligenza dei due scrittori che lo priva dell'unica copia del suo libro, dapprima si infuria, poi con molto coraggio si mette a riscrivere a memoria tutto il testo, aiutandosi con qualche appunto e bozza. Ostinatamente ha deciso che pubblicherà il libro; lo intitolerà questa volta Canti Orfici.
"Ho bisogno di essere stampato per provarmi che esisto. Per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato" annota disperato il poeta nel tentativo di ricomporre il manoscritto perduto. Il testo definitivo lo stampa a Marradi il tipografo Bruno Ravagli a spese dell'autore che, da parte sua, si impegna a pagare a rate 650 lire.
Nell'edizione marradese il libro è di aspetto tanto povero quanto leggendario. Nel sottotitolo si legge: Die Tragodie des letzten Germanen in Italien, e l'opera è dedica all'imperatore prussiano Guglielmo II. Da qui altro scandalo per i dannunziani di Marradi e non solo per loro. Ultimata la stampa Campana ritorna a Firenze con un grosso carico di copie. Le rivenderà fra i tavoli dei caffè o per strada, dando così luogo a un'altra leggenda e suggellando ulteriormente la sua stramberia. "Se io vendevo quel libro era perché ero povero" lamenterà il poeta.
Intanto l'Italia entra in guerra nel 1915; Campana vuole arruolarsi volontario, ma dati i suoi precedenti clinici viene definitvamente riformato. Per lui è l'ultima condanna: l'hanno bollato per sempre come mentecatto.
Prima del definitivo declino, tuttavia, un ultimo inaspettato episodio, gli darà, pur nel fervore amoroso, il colpo di grazia. Nell'estate del 1916 Sibilla Aleramo, autrice di Una donna, gli scrive una lettera piena di ammirazione per i suoi Canti, allegando la richiesta di un incontro. Così povero d'affetto, rotto dalla sofferenza, Campana si consegna radicalmente a questa amicizia con animo pronto e subito la trasforma in una passione totale, esasperata. Ma l'amore si corrode presto in gelosia. Campana alterna momenti lucidi a forme di delirio e scenate, perdendo ogni controllo.
Nel natale dello stesso anno, i due si danno appuntamento a Marradi all'albergo Lamone nel centro cittadino. In paese lo scandalo risuona forte: siamo ormai alle ultime battute. Per salvarsi da questo amore insostenibile Sibilla decide di sparire, di abbandonare l'uomo che per lei ha scritto le poesie più dolci e serene. Campana è distrutto, vacilla sull'orlo dell'esaurimento.
"Mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola e sai quanto ti sarei grato. Altre parole non trovo. Non ho più lagrime. Perché togliermi anche l'illusione che tu mi abbia amato è l'ultimo male che mi puoi fare".
Dopo quest'ultima vicenda la salute mentale del poeta precipita. L'amore è disperso senza lasciar traccia. Al suo posto cresce uno stato di allucinazioni, mentre le manie di persecuzione si fanno più acute.
Infine il 18 gennaio 1918, oppresso dalle sventure reali e dai troppi fantasmi, lacerato da una sensibilità visionaria, squassato da una giovinezza tormentata, Dino Campana è internato definitivamente nell'ospedale di Castelpulci dove morrà. Finalmente qui placa la sua angoscia, qui anche finisce il suo itinerario immaginario di dolore e creazione poetica.
"Oh poesia tu più non tornerai/ Eleganza eleganza/ Arco teso della bellezza. /La carne è stanca, s'annebbia il cervello, si stanca [...]". Non scriverà mai più.
Ma i suoi Canti sono destinati a ben altra sorte: sopravviveranno al secolo ed entreranno di diritto nella storia della lirica italiana. Il poeta pazzo troverà nella sua opera la giustificazione, almeno estetica, della sua folle esistenza.
Conclude: "Ma che farne, tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili..." scrive in una lettera del 1930 a Bino Binazzi, quando ormai ha abbandonato qualsiasi velleità. (Quattordici anni prima invece scriveva alla Aleramo: "tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili").
Poco resta dello spirito ribelle e inquieto del giovane avventuriero-giramondo-poeta. Gli viene diagnosticata l'ebefrenia, forma estremamente grave e incurabile di schizofrenia; tuttavia sembra essere a suo agio nel manicomio, dove rassegnato conduce una vita tranquilla, finalmente sedentaria. "La mia vita scorre monotona e tranquilla" - scrive nel marzo del '31 al fratello Manlio " Leggo qualche giornale. Non ho più voluto occuparmi di cose letterarie stante la nullità dei successi pratici ottenuti. Il mercato librario è assolutamente nullo per il mio genere".
Oggi la critica riconosce in Campana uno dei poeti più validi del '900; a mano a mano che la sua figura e la sua opera si allontanano nel tempo pare che il senso dei suoi versi affiori nel suo significato profondo. Se egli fu il più povero, travagliato e malato dei poeti, pur tuttavia donò al mondo capolavori di inestimabile ricchezza che ancora oggi ci emozionano e toccano il cuore.
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Copertina della prima edizione di Canti Orfici (1914), Wikipedia
Prima pagina de Il più lungo giorno , consultabile sulle pagine della Biblioteca Marucelliana di Firenze