Settembre è malinconia, è tempo di tirare le somme dell’estate appena trascorsa; settembre è riorganizzazione, ritorno nella routine, settembre è tempo di migrare, tornare, sospirare.
Settembre è malinconia, è tempo
di tirare le somme dell’estate appena trascorsa; settembre è riorganizzazione,
ritorno nella routine, settembre è tempo di migrare, tornare, sospirare. Siamo
arrivati nel periodo dell’anno più triste, forse ancor più triste del sette
gennaio, il giorno in cui si torna al lavoro dopo la fine delle feste
natalizie. Quest’ultime sono intense, ma brevi, molto più brevi della calda
villeggiatura estiva. Proprio per questo l’arrivo di settembre è più
traumatico. Le giornate cominciano ad accorciarsi, la calura estiva si dirada,
il bel sole anche. Rimangono solo il ricordo delle giornate passate, il sospiro
degli amori non corrisposti dopo la fine del sogno, il rimpianto delle cose non
fatte o fatte male.
Settembre è la fine delle ferie, “è la fine della fiera”, come si suol
dire da qualche parte, è il ritorno nella stancante normalità. “Settembre,
andiamo”. E’ questo l’incipit de “I pastori”, celebre poesia di Gabriele d’Annunzio, cui è stato dedicato un parco letterario ad Anversa degli Abruzzi.
Settembre è il mese dell’abbandono degli alpeggi, della migrazione dei pascoli
verso il mare squassato dalla forza del vento e non più riscaldato dall’afa
della bella stagione.
Per chi è solito passare in montagna quest’ultima – come i pastori -, a
settembre si abbandonano il dominio della piana, il paesaggio d’alta quota, per
tornare tristi a sopportare la mestizia che le località balneari arrecano in
autunno e in inverno. A settembre rimane soltanto il ricordo del “sapor d’acqua
natia” che sgorga dalle sorgenti, mentre vince l’angoscia del ritorno, quella
che pervade l’animo del pastore, abituatosi a fermarsi in alto, coltivando
l’illusione di poter fermare il tempo. Per chi ha passato l’estate al mare e
deve tornare in città, invece, è tempo di tornare a sopportare, almeno fino a
ottobre – quando il clima si fa più mite, quando “sono più miti le mattine”
descritte da Emily Dickinson -, il fastidioso caldo assorbito dai palazzi.
Servirà qualche giorno per riabituarsi, ma passato il trauma iniziale
tornerà il tempo del piacere; il piacere dell’attesa di nuovi giorni liberi,
evasivi, spensierati, caldi, ricchi, di tempo libero da impiegare e di persone
nuove da incontrare. Siamo tutti uccelli migratori, in fondo, che si tratti di
persone che si spostano perché sanno cosa vogliono o di persone che lo fanno
perché sperano di trovare pace, illudendosi: perché il mare disinfetta solo in
parte le ferite, perché la montagna riempie solo in parte il desiderio di
guardare il mondo dall’alto. Chi si affanna per mare o per terra cambia il
cielo – anche se è impossibile – piuttosto che curare il suo animo. Spostarci
non ci cura, non guarisce le ferite.
Ce lo insegna Orazio: “Coelum non animum mutant qui trans mare currunt”.
Ma quanto è piacevole, però. Sicuramente non si guarisce, ma quanto è bello
pensare ai propri guai sul pontile di un traghetto piuttosto che guardando il
negozio sotto casa dal balcone al quinto piano? Il viaggio ci fa sentire vivi,
per questo lo sogniamo, per questo lo aspettiamo. Perché, come afferma Arthur
Schopenhauer – che di viaggi dell’animo e turbamenti interiori se ne intendeva
-, “accade durante i viaggi: un solo mese sembra più lungo di quattro mesi
trascorsi a casa”. Anche se, in realtà, è più l’attesa del viaggio a regalarci
vita, più di quanta ce ne possa regalare il viaggio stesso. Viviamo di attese.
E’ l’attesa del piacere il piacere più grande che esista. La pandemia, quindi,
di fatto ci ha tolto tutto. Perché ci ha relegato in una vita apatica vissuta
nell’attesa del niente cosmico.
Prima si andava a scuola per aspettare le vacanze. Ora a scuola non si
va più, o ci si va poco. La didattica a distanza riempie le nostre giornate, le
nostre vite sono diventate sedentarie, piatte, noiose. Proprio per questo, forse,
il ritorno si fa ancora più pesante e triste, perché aumentano i sospiri per
tutto ciò che non si è potuto fare. Perché torna la paura delle restrizioni,
perché stiamo “morendo lentamente”, “schiavi dell’abitudine e degli stessi
percorsi”, quelli che ormai, purtroppo, tracciamo solo dentro casa. Neruda
definiva “morti” tutti gli individui schiavi della routine. La pandemia,
privandoci della possibilità di fuggire da quest’ultima, ci ha reso schiavi di
un’esistenza vuota che pian piano si consuma. Proprio per questo, quest’anno,
l’arrivo di settembre è ancora più traumatizzante. Perché speravamo tutti che
questa estate sarebbe stata diversa, perché speriamo tutti che il prossimo
autunno sia diverso dal precedente, ma in cuor nostro sappiamo che sicuramente
non sarà “normale”, come quelli pre-pandemici. Cosa ci resta? Sognare il primo
giorno di un’estate senza restrizioni. Sognare un autunno fatto di divertimento
e di uscite, oltre che di coperte, serie TV e bevande calde. Sono fiducioso.
Arriverà. Rientriamo per sperare. Speriamo. Tornerà. La vita vera tornerà.
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Immagini di Alessandro Di Mattia