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Borgo universo

20 Ottobre 2021
Borgo universo
Silone stenterebbe a riconoscere i conterranei. Se da Pescina si incamminasse fino ad Aielli troverebbe all’ingresso del paese un segno del mutare del tempo: un edificio industriale abbandonato su cui uno street artist ha disegnato lucciole e cinghiali

Quanta parte della cultura contadina abbiamo perso in questi anni e cosa è rimasto a sua testimonianza? E’ una domanda complessa, ricca di sfaccettature, che prende le mosse dall’analisi lucida fatta da Pier Paolo Pasolini, allorché descriveva i mutamenti sociali del boom industriale degli anni ’60, per giungere ai nostri giorni caratterizzati dal vivere post industriale, globale e delocalizzato. In mezzo ci sono oltre ottanta anni di cambiamenti. Partiamo dall’assunto che il mondo contadino non è mai stato facile né piacevole. La visione di un’arcadia armoniosa e spensierata (che tanto piace al moderno cittadino) non è mai esistita. E’ esistita, piuttosto, una società patriarcale, rigida, in gran parte condizionata dalle differenze dovute al censo e alla gestione delle proprietà, ove i contadini, per secoli, sono stati sfruttati ed hanno lottato con le unghie e con i denti per sopravvivere. Ma sarebbe distorto anche affermare che quel mondo fosse totalmente chiuso e infelice. Poiché la coltivazione della terra e la pastorizia sono state la prima forma di civiltà e la base di ogni successivo progresso per l’umanità. E, dunque, per secoli, il succedersi delle stagioni si è accompagnato a conquiste e innovazioni, ma anche a vivere il connubio stretto con la Natura, comunque, dispensatrice di vita e sostentamento. 

La cultura contadina è un bagaglio vivo, a volte fatta di credenze che oggi definiamo strampalate, ma è sempre stata fonte d’ispirazione per la sua saggezza insita e per quel patrimonio, stratificatosi nel tempo, ricchissimo di esperienze collegate alla pratica quotidiana.

E’, quindi, sorprendente rendersi conto che in un brevissimo arco temporale quel mondo è scomparso, spazzato via da nuovi modelli di vita e consumo. Una rivoluzione silenziosa e incruenta che ha fatto sì che il nostro Paese perdesse, nel giro di pochi decenni, la propria vocazione agricola. Una simile resa incondizionata potrebbe far propendere il giudizio storico a favore dei nuovi modelli che si sono affermati: l’affrancamento dalla vita dei campi sarebbe, in altri termini, la manifestazione di un rifiuto ed, in ultima analisi, il desiderio riuscito di allontanarsi da un mondo duro e difficile. Il contadino inteso come persona ignorante, rozza, poco intelligente e spesso perdente. La “terra è bassa” si usa dire, per ricordare la fatica associata da sempre a quel mondo. E, dunque, appena si è palesata la possibilità, l’asse della società si è spostato in altra direzione. Non meno semplice e insidiosa, se si prendono in considerazione gli effetti pesanti legati al mondo operaio e alla cosiddetta catena di montaggio, meccanismo che stritola individualità e dignità delle persone. Forse, lo scambio non è stato così vantaggioso, ma ancora una volta non bisogna dimenticare le premesse da cui si è partiti, ben descritte nel libro “Fontamara” di Ignazio Silone, che con poche ed efficaci parole racconta le distanze sociali e lo sfruttamento delle popolazioni:
In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch'è finito”.

 Chi è (era) il cafone? L’uomo che cava la terra. L’uomo che fatica, che si spezza la schiena e vive una vita meno che dignitosa. L’uomo lasciato incolto, deriso e derubato. Silone ne descrive le debolezze, la voglia di riscatto in una lotta impari, ove il Principe possiede tutto e quando decide di mettere in campo l’opera ambiziosa del prosciugamento del lago del Fucino, si riserva, a compimento dell’impresa, oltre 14.000 ettari dei 16.500 ottenuti. Ma il mondo contadino continua ad esercitare comunque il suo fascino, a più riprese e in epoche diverse. Lo stesso D’Annunzio, stanco del suo edonistico vaneggiare, guarda con invidia ai “suoi” pastori d’Abruzzo, nella poesia dedicata alla transumanza, quasi a cercare in gesti e abitudini umili un’alternativa alle sue intemperanze di uomo moderno. Non sappiamo quanto il suo intimo desiderio sia stato reale o frutto, piuttosto, di una delle infinite pose del Vate, ma è indubbio che quel “Settembre andiamo è tempo di migrare” suona ancora oggi da sprone anche per le anime irrequiete e insoddisfatte. Qualcuno, ogni tanto, si avventura in questo viaggio e si lascia alle spalle i ritmi della vita cittadina, considerata alienante. Si parla spesso di “fuga” verso la campagna: che si tratti di rockstar, ex calciatori, ex manager o semplici cittadini, la scelta di tornare alla terra viene sempre vista come qualcosa di elitario e anche stravagante. Rispetto ai tour vacanzieri organizzati, il turismo a passo lento, magari condotto proprio lungo le vie della transumanza, è considerato qualcosa di elitario e un po’ “fricchettone”. E questa continua ad essere anche la sua fortuna, poiché determinati territori vanno attraversati in punta di piedi, fuggendo dai riti di massa.

Che fine ha fatto il “cafone”? Esiste ancora? Certamente, ma si è evoluto o meglio è divenuto un soggetto diverso, mimetizzato. E’ ancora lì, abbarbicato alla sua terra, finalmente liberata dai retaggi feudali. E’ divenuto imprenditore di sé stesso, senza più padroni o sfruttatori. Vive nei suoi paesi, di cui è rimasto custode. Il palazzo dei principi Torlonia, ad Avezzano, è diventato un edificio pubblico e gli ettari del Fucino sono stati ripartiti tra diversi soggetti. E’ arrivata da tempo la Telespazio con le enormi parabole che scrutano il cielo.
Ignazio Silone stenterebbe a riconoscere, oggi, i suoi conterranei. Specie se da Pescina si incamminasse fino ad Aielli, il piccolo borgo che si affaccia sulla piana. Qui troverebbe già all’ingresso del paese un ulteriore segno del veloce mutare del tempo: un grosso edificio industriale, in abbandono, su cui muri scrostati la mano di uno street artist ha disegnato lucciole e cinghiali. E poi, inerpicandosi su su, lungo la strada che attraversa la ferrovia, altre tracce dipinte farebbero sorgere il sospetto che qualcosa è cambiato, che i linguaggi hanno assunto altre forme.
Aielli, infatti, da alcuni anni è divenuto un laboratorio artistico a cielo aperto. Le sue abitazioni sono ricoperte da enormi murales ed ogni anno, durante il periodo estivo, nuovi virtuosi della bomboletta spray, appositamente invitati, si cimentano con soggetti e temi sociali. Aielli, quindi, parla attraverso i suoi muri. Ormai sono 26 i murales e ogni scorcio del piccolo paese (poco più di 1.400 anime) rivela una sorpresa, una suggestione, un momento di riflessione. I colori sono spesso accesi, gli accostamenti insoliti, l’impatto d’effetto.
La manifestazione estiva si chiama “borgo universo”, poiché Aielli, così piccolo ed apparentemente insignificante, ha un suo osservatorio delle stelle, posizionato nella vecchia torre di origine medievale che ne domina la sommità. Qui è possibile seguire dei piccoli corsi di astronomia. Molti dei murales riprendono, pertanto, il tema dell’universo e dell’osservazione e invitano a porsi delle domande.
Silone (ancora lui) si stupirebbe davvero: il cafone che solleva lo sguardo dalla terra e lo rivolge al cielo. In un naturale anelito di ricerca di libertà. Via dalle catene della mera sopravvivenza, via dal sopruso. In cerca piuttosto, di qualcosa di più alto e vero. Allo scrittore di Pescina gli abitanti di Aielli hanno voluto, comunque, dedicare un omaggio speciale. Sui muri dell’edifico che ospita un piccolo museo, l’artista Alleg, nel 2018, con la collaborazione della popolazione, ha trascritto tutto il testo di “Fontamara”, consegnando quelle pagine su pietra ai visitatori occasionali. Un minuzioso e paziente lavoro destinato a sbiadirsi nel tempo ,come le esistenze tragiche o felici che si consumano sotto la volta celeste. E’, forse, l’apice di un intero percorso artistico, legame inscindibile con questo territorio che ha conosciuto lotte, stenti e, finalmente, riscatto.

 Bernardo Viola, cafone simbolo dell’opera di Silone, cerca di ottenere il suo pezzo di terra. Cerca dignità e viene ucciso dall’oppressione dittatoriale. Ma dal suo sacrificio, sgorga la domanda più giusta e vera, preludio di quel sommovimento che farà maturare le coscienze e opererà il loro risveglio. Negli anni in cui fu scritto, il libro di Fontamara si chiudeva con una domanda dagli esiti incerti, quasi disperata: “Che fare?

Oggi, a distanza di oltre ottant’anni, siamo qui appollaiati su una torre di pietra ad osservare il cielo. In precario equilibrio, ma liberi.

Nicolò Giordano





Riproduzione riservata © Copyright I Parchi Letterari

Immagini di Nicolò Giordano



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