Con il Sacco di Roma la supremazia asburgica sulla penisola fu definitivamente suggellata e con essa ebbe inizio quell'età che gli spagnoli definirono "el siglo de oro". La pace di Cambrai detta delle Dame perché fu soprattutto voluta dalla madre di Francesco I e dalla zia di Carlo V vista la vana sfida a distanza dei due contendenti, stipulata nel 1529, relegò per circa due secoli il destino della penisola italiana in un anonimato senza spiragli, immergendola nel pantano di un conformismo rigido dai connotati spagnoleschi. Da quel momento le signorie italiane furono private di ogni significato decisionale nello scacchiere politico europeo, senza più una parvenza di libera scelta dominate com'erano dalla ingombrante presenza spagnola.
Solo Venezia resse l'urto perché era in gioco la sua stessa sopravvivenza. Il pontefice Giulio II aveva infatti promosso a Cambrai la costituzione di una Lega che doveva punire l'espansionismo della Serenissima. L' armata di terra veneziana venne sconfitta ad Agnatello e a Chiara d'Adda e i domini di terraferma furono invasi; si salvò Padova che resistette a un lungo assedio, ma il resto dell'esercito dovette ritirarsi sino all'orlo della laguna. La Repubblica riuscì a salvarsi usando gli strumenti di una diplomazia di altissima tradizione e prestigio, di cui il doge Leonardo Loredan fu il sagace orchestratore.
I ritratti di dogi che ornano il fregio delle due sale più belle del Palazzo ducale di Venezia e che abbracciano un arco di tempo di circa mille anni, da Obelario (804) a Ludovico Manin (1797), ci ricordano che la Serenissima Repubblica contese all'impero bizantino il primato di durata fra gli Stati d'Europa e che costituisce un "unicum" assoluto per la sua continuità costituzionale. Una repubblica aristocratica, nella quale soltanto gli appartenenti alle famiglie iscritte al "Libro d'oro" godevano i diritti politici, e ne assolvevano anche i doveri.
Alla testa della Repubblica, il doge, per l'appunto, doveva avere almeno trent'anni d'età (limite poi portato a quaranta), ma in realtà veniva scelto molto più anziano perché avesse maggiore esperienza. C'era un altro motivo; gli anni giovanili dovevano essere dedicati a costruire o ad ampliare il patrimonio familiare, nell'esercizio di quelle attività che furono il solido fondamento della potenza veneziana: la navigazione e il commercio.
Leonardo Loredan non si sottrasse a questo apprendistato. Da giovane si dedicò alle lettere, "molto profittando", come scrive Andrea Mosto, poi alla navigazione e al commercio.
I veneziani furono indotti a rendere la loro città un polo di traffici e di scambi anche per ragioni logistiche essendo la città circondata da acque interne e marine che costituivano naturali vie di comunicazione. Tutta la storia di Venezia è imperniata sulle attività mercantili. I generi principali che alimentavano il commercio marittimo e fluviale erano oltre al sale, il vetro; più tardi i panni di lana, il legname da marina proveniente dai boschi dell'alto veneto ed il ferro proveniente dalle miniere della Stiria e della Carinzia. Queste merci prendevano la via dell'Oriente, dal quale provenivano invece viaggiando in senso opposto le spezie, allora importanti quasi quanto il sale.
La vita mercantile, imperniata sulla navigazione, fece sviluppare l'industria cantieristica e l'artigianato d'arte. Alimentò poi una
incessante attività finanziaria, basata soprattutto sulla partecipazione alle imprese commerciali e armatoriali.
Per molti secoli una parte notevole della popolazione partecipò finanziariamente in varie forme al rischio dei commerci, talvolta limitandosi a investire piccole somme. Allo stesso modo oggi il piccolo risparmiatore compera azioni ed obbligazioni o gioca in borsa.
Ma torniamo a Leonardo Loredan. Divenuto doge profuse ogni energia alla difesa di Padova, introducendovi il fiore delle sue milizie, rafforzando in modo insuperabile le vecchie fortificazioni, costituendo una scelta schiera di volontari appartenenti al patriziato fra i quali i suoi due figli. Le cronache dell'epoca, avare come sempre di elogi alle persone, riconobbero tuttavia al doge gran parte del merito per aver saputo realizzare una così compatta mobilitazione di uomini e di mezzi. Quest'uomo che viene descritto "macilento di carne, tutto spirito e statura grande, de pocha prosperità", conquistò la stima universale per l'imparzialità dimostrata che gli valse la fiducia anche degli avversari. Dovette affrontare altri momenti difficili per la Repubblica quali pestilenze e carestie. Aveva appena compiuto sessantotto anni quando cadde e rimase invalido, ma continuò ad esercitare con rigoroso zelo il suo incarico sino a quando la morte lo colse vent'anni dopo. Questo senso del dovere che a noi sembra quasi eccessivo faceva parte delle istituzioni alle quali la Serenissima affidò la sua lunga stabilità e prosperità. Colpisce soprattutto la scelta di un capo di stato anziano, ma forte, dotato di equilibrio e alieno dalle passioni, e che soprattutto sentisse profondamente il dovere di praticare l'attività politica per il bene della comunità.
A questo genere di uomini Venezia deve l'ultramillenaria durata del suo governo.
Paola Benadusi Marzocca
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Immagine. Ritratto del Doge Leonardo Loredan, Vittore Carpaccio, dipinto tra il 1501 e il 1503, Accademia Carrara, Bergamo
Vittore Carpaccio, Public domain, via Wikimedia Commons