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Alla ricerca della lucanità perduta

23 Febbraio 2022
Alla ricerca della lucanità perduta
Si è affermato da parte di studiosi di varie discipline che molti atteggiamenti e comportamenti, vizi e virtù, pensieri e stili di vita individuali o collettivi sono strettamente connessi ai luoghi di origine.

Si è affermato da parte di studiosi di varie discipline che molti atteggiamenti e comportamenti, vizi e virtù, pensieri e stili di vita individuali o collettivi sono strettamente connessi ai luoghi di origine. Si è voluto anche teorizzare attraverso analisi scientifiche l'esistenza di una “anima del luogo”. Non di rado si è arrivati perfino a definire lo spirito individuale o comunitario con sbrigative formule definitorie, che sono state prodotte da improbabili luoghi comuni, fallaci e tenaci come tutti i luoghi comuni.
Si sono in tal modo diffuse e cristallizzate nel tempo etichette più o meno attendibili e spesso del tutto fantasiose: l'avarizia dei genovesi, la laboriosità dei milanesi, l'ipocrita cortesia dei piemontesi, la fastidiosa boria dei romani, il corrosivo sarcasmo dei toscani, il pacioso epicureismo degli emiliani, lo spensierato disincanto dei napoletani. E si potrebbe continuare così per le genti di tutti i comuni italiani, ivi compresi ovviamente quelli lucani.

In realtà, quando si sostiene che si è segnati dal proprio luogo di origine, si dice cosa vera, a patto che il rapporto non sia inteso in senso deterministico. Più corretto, invece, è ritenere che le persone ereditino dal proprio ambiente e dai propri avi, chi più chi meno, un patrimonio di pensieri e di sentimenti, di memorie e di affetti, che poi essi provvedono a rinnovare e ad arricchire tramite la sensibilità e l'ingegno personali, oppure a svilire e a depauperare per colpa della propria inettitudine o ignavia. Alla fine, nel bene e nel male, ciò che conta sono pur sempre le irripetibili esperienze di vita individuali.

Le considerazioni fatte nel nostro lungo preambolo possono valere anche quando si vuole evocare l'idea della «lucanità», che per alcuni è solo fantasiosa leggenda, o peggio fastidiosa retorica, per indicare atti e tratti significativi della personalità dei lucani come, ad esempio, la sobrietà, la discrezione, la riservatezza, l'umiltà, la tenacia, la laboriosità.
Si tratta, come è agevole arguire, di modi di essere legati perlopiù alla cultura contadina, che per molti secoli è stata dominante nella storia della regione. Anzi, non è azzardato ritenere che siano, quelli della cultura contadina, i soli veri ed autentici valori identitari che la Lucania-Basilicata può rivendicare. Se, infatti, si considerano da altre angolazioni la storia e la geografia del territorio lucano, questo si mostra molto eterogeneo e gli elementi di differenzazione appaiono tali che all'interno dei confini dell'attuale regione si possono individuare almeno cinque “Lucanie” molto diverse tra loro.
La stessa varietà di dialetti ne è una spia eloquente.

A proposito dei segni caratterizzanti la società contadina vale la pena di ricordare che essi non sfuggirono all'attenzione degli etnologi, antropologi e sociologi, che sulla scia di Carlo Levi nei primi anni Cinquanta del secolo scorso giunsero dall'Italia e dall'estero in molti paesi lucani e li trasformarono in interessanti e originali laboratori di ricerca. Alcuni pensarono, alla fine, di poter individuare nei comportamenti ricorrenti nella vita familiare e sociale delle comunità lucane, oltre ai tratti salienti sopra indicati, un elemento essenziale, che negativamente li connotava, vale a dire una forte e inestirpabile propensione alla fatalistica rassegnazione e al “familismo amorale”.

Espressione di un mondo ormai del tutto scomparso, quegli aspetti perdurano ancora oggi, essendo divenuti autentici topoi letterari.
 Sono stati, infatti, e continuano ad essere motivo di ispirazione di gran parte degli scrittori e dei poeti lucani, i quali hanno rappresentato la loro regione non di rado con arte bozzettistica, spesso con toni elegiaci o crepuscolari, talvolta con accenti di intensa liricità, come una terra arida e avara, abitata da una umanità dolente e rassegnata. È la terra ostile ed amara che compare, ad esempio, già nella prima raccolta poetica di Giulio Stolfi (Potenza, 1917 – 2005), “Giallo di argilla e di ginestra”, in cui sembra che le due rappresentazioni, del paesaggio e delle persone, si sovrappongano, fino a lumeggiarsi vicendevolmente. In “Paesi sui monti” si delineano così i profili dei piccoli paesi lucani, «caparbiamente piantati / sugli aspri monti a sfidare / l'urto rabbioso del vento, / chiusi nel cerchio dei giorni / lunghi ed eguali, fermati / senza domani nel tempo».
 In “Lucania”, invece, salgono alla ribalta le persone, che a quei paesi restano legate con un'ostinazione irragionevole e degna di miglior causa. Sono esse per prime ben consapevoli, e non hanno difficoltà ad ammetterlo con sconsolata amarezza, che
«Se ci mangia la frana i magri campi / e ci spia la malaria dai canneti / più ci attacchiamo a questa terra dura / senza canti e leggende, terra chiusa».

 Non stupisce, perciò, il fatto che in questa terra matrigna diventi vana ed utopica l'attesa dell'alba nuova agognata da Rocco Scotellaro (Tricarico, 1923 – Portici, 1953), il giovane poeta lucano che pure aveva fatto della poesia uno strumento di denuncia e di lotta politica per il riscatto di quel brandello di umanità, che il suo mentore Carlo Levi nel “Cristo si è fermato a Eboli” aveva considerato “senza peccato e senza redenzione”. La poetica di Scotellaro, definita di volta in volta neorealista, crepuscolare o ermetica, si fonda in gran parte sulla descrizione di una terra, la sua, segnata da una lunga storia, densa di miseria e di dolore. Come testimoniano già i versi della poesia, “Lucania”, datata 1940, in cui è agevole avvertire chiari echi pascoliani: «M'accompagna lo zirlio dei grilli / e il suono delle campane al collo / d'un'inquieta capretta. / Il vento mi fascia / di sottilissimi nastri d'argento / e là, nell'ombra delle nubi sperduto, / giace in frantumi un paesetto lucano». 
 Leggendo i versi di questa che risulta essere stata la prima poesia composta da Scotellaro, non è chi non veda di primo acchito un evidente richiamo dei versi dell'ultima strofe de “L'assiuolo” del poeta Giovanni Pascoli «Su tutte le lucide vette / tremava un sospiro di vento, / squassavano le cavallette / finissimi sistri d' argento / ...».
 Ma, come si è appena accennato, la poesia di Scotellaro non è solo memoria e nostalgia e malinconica rappresentazione di luoghi e persone del paese natale.
 Essa si fa strumento di denuncia politica e di impegno sociale per il riscatto di una moltitudine di derelitti, almeno finché non arriva, e ciò accade purtroppo assai presto, il fatale momento della disillusione e dello sconforto. Allora al poeta rimane solo da prendere atto, come fa con definitiva rassegnazione in “Pozzanghera nera il 18 aprile”, che «… è finita, è finita, è finita / quest'altra torrida festa / siamo qui soli a gridarci la vita / siamo noi soli nella tempesta», perché «noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti» 

 Anche al giovane sindaco e intellettuale tricaricese, allora, non resta che partire, per cercare altrove il riscatto che invano ha inseguito e sognato per sé e per i suoi compaesani nella terra natale. In ambito letterario e poetico, infine, sull'idea o, se si preferisce, sul mito della “lucanità” risulta particolarmente significativa e autorevole la testimonianza di Leonardo Sinisgalli (Montemurro, 1908 – Roma, 1981), l'ingegnere poeta e scrittore, che in diversi momenti e in svariate forme riuscì a darne una rappresentazione pregnante e icastica. Memorabile è a tale proposito il famoso brano di un'opera del 1975, Un disegno di Scipione e altri racconti: «Girano tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti. Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all'ombra. Dove arriva fa il nido, non mette in subbuglio il vicinato con le minacce […]. È di poche parole. Quando cammina preferisce togliersi le scarpe e andare a piedi nudi. Quando lavora non parla, non canta. Non si capisce dove mai abbia attinto tanta pazienza, tanta sopportazione. Abituato a contentarsi del meno possibile, si meraviglierà sempre dell'allegria dei vicini, dell'esuberanza dei compagni, dell'eccitazione del prossimo. Lucano si nasce e si resta»
Lo stesso Sinisgalli ci aiuta a cogliere un altro tratto dei suoi conterranei non meno rilevante di quelli sopra indicati, ma troppo spesso trascurato o ignorato, che può essere individuato nella loro predisposizione alla riflessione e alla meditazione. Si può dire che sia un atteggiamento proveniente da una tradizione plurisecolare, come attesta la fioritura nelle colonie fondate dai greci sulle coste lucane di alcune prestigiose scuole filosofiche, le quali molto contribuirono allo sviluppo del pensiero occidentale.
 Ce lo ricorda il poeta di Montemurro in una limpida strofe di un suo componimento poetico, pur esso intitolato “Lucania”: «Lo spirito del silenzio sta nei luoghi / della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, / sofistico e d'oro, problematico e sottile, / divora l'olio nelle chiese, mette il cappuccio / nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce / con l'erba alle soglie dei vecchi paesi franati».

L'immagine dello “spirito del silenzio” non è orpello retorico o nota folclorica, ma nella sua pregnanza lascia balenare allusioni di carattere sociale, etico e spirituale. In realtà, il silenzio nei secoli ha dominato sovrano nelle contrade della Lucania-Basilicata e ha segnato la millenaria vita di una regione, che, tagliata fuori dalle grandi strade di comunicazione, è stata da sempre condannata ad un penalizzante isolamento.
Tale dimensione, che indusse Carlo Levi a scrivere nel suo capolavoro di un “mondo chiuso e immobile”, suggerisce un'ultima riflessione, che investe anche la drammatica attualità del nostro tempo. Il silenzio, se in passato era un velo che lasciava trasparire simulacri di vita, seppure miserevole, oggi sembra essere diventato un triste sudario di morte, che avvolge un territorio cinicamente depredato delle sue inestimabili risorse umane e naturali.
Lo testimoniano pochi dati demografici, significativi nella loro crudezza e riconducibili agli eventi che si susseguirono tumultuosamente a partire dai primi anni Cinquanta del secolo scorso. Com'è noto, l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e la Riforma agraria nel 1950, con il successivo avvio di un programma di industrializzazione, innescarono un processo di profonda e radicale trasformazione sociale.
Scomparve il mondo contadino con i suoi riti, i suoi miti, la sua storia millenaria, ma l'avvento della modernità, avvenuta in maniera caotica e contraddittoria, non riuscì a sostituirli con i valori di un nuovo Umanesimo. Né furono risolti i drammatici problemi sociali ed economici, che da oltre un secolo tormentavano l'intera Italia meridionale, sicché dopo una breve pausa la disoccupazione e l'emigrazione assunsero di nuovo dimensioni terrificanti per una piccola regione qual è quella lucana.
Per avere un'idea della catastrofica situazione demografica attuale, basti ricordare che la Lucania-Basilicata, che nel 1961 contava 644.297 abitanti, solo negli ultimi venti anni ha visto ridurre la sua popolazione di oltre 55.000 unità, passando da 597.468 abitanti nel 2001 a 541.786 nel 2021, anche a causa di un clamoroso e preoccupante fenomeno di denatalità.

 Non pochi temono, e non a torto, che i paesi interni della dorsale appenninica lucana siano destinati alla scomparsa nel giro di pochi decenni, perché nel Mezzogiorno d'Italia il virus dell'emigrazione non solo non è stato mai debellato nel corso di oltre un secolo e mezzo di storia unitaria, ma non ha neppure perso la sua forza. Si è limitato solo a mutare sembianze.
 Un tempo, infatti, vittime dell'«esilio forzato di massa» furono braccianti e contadini analfabeti, oggi sono invece migliaia di giovani diplomati e laureati, costretti a cercare altrove le occasioni di lavoro e di riscatto, che, come già accadde agli antenati, sono loro negate nella propria terra.
Per tanti lucani, insomma, la terra di origine fu e continua ad essere il luogo dei progetti infranti e delle speranze tradite, la pallida ombra di un sogno che ora appare svanito per sempre.

Angelo Colangelo

Riproduzione riservata © Copyright I Parchi Letterari

Immagine di copertina: Craco il paese fantasma. Di Maurizio Moro 
(https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Craco_il_paese_fantasma.jpg#file)
Maurizio Moro5153, CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia Commons


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