Il suo primo documentario, a differenza dei successivi, aveva un esito certo e ineluttabile: la morte del protagonista. Sì, perché quando nel 1980 il trentaquattrenne Wim Wenders accettò di filmare e firmare quello che sarebbe diventato lo scioccante testamento di Nicholas Ray, non c’erano grandi mezzi e neppure una sceneggiatura, ma la sola certezza del cancro che stava dilaniando il regista, suo mentore ed amico. Inno alla vita tramite la sua negazione estrema, che paradossalmente (e con buona pace dei transumanisti) può darle un senso più d’ogni altra cosa, Lightning Over Water - Lampi sull'acqua è rimasto un unicum nella storia del cinema. Prefigurando, in un certo senso, usi e abusi del cosiddetto ‘tempo reale’, ormai ubiquo nella sua pervasività e riproducibilità compulsiva. Non mancarono critiche al presunto voyerismo dell’opera, straziante anche per lo stesso Wenders che difatti ne fuggì, affidando il montaggio a Peter Przygodda, per poi tornarci sopra, dopo Cannes e Venezia, rimontandola e accorciandola. Certo è che sin dapprincipio un afflato di spiritualità informa la ricerca wendersiana, con una concretezza tutta sua che ricorda l’anelito degli angeli ne Il cielo sopra Berlino (1987) i quali, anziché bearsi di un’algida, distaccata eternità, guardavano alle umane vicende con empatico trasporto. Del film che più lo rese celebre ha detto: “Col senno di poi, è sembrato come se gli angeli che ho ricercato ed evocato nel film mi avessero concesso una grande lezione sull’atto del vedere” (Il Messaggero, 18 Maggio 2017).
Abbandonata l’idea sacerdozio che lo aveva tentato in gioventù (e meno male: non sarebbero nati film quali Lo stato delle cose, Paris Texas, Lisbon Story, o Fino alla fine del mondo), Wenders ha fatto della macchina da presa lo strumento primo della propria quest, creativa e spirituale, riplasmando come pochi la fisionomia del documentario – e sotto molti aspetti della fiction. Regalandoci veri e propri tributi che di volta in volta riflettono le tappe di una passione, e compassione, incessante e multiforme. Opere che schiudono squarci su mondi capaci di affinare e d’innalzare lo sguardo: basti pensare a Buena Vista Social Club (1999) – una “fairy tale”, così l’ha definita, che a due anni dalla pubblicazione dell’omonimo album portò alla ribalta planetaria l’indimenticabile gruppo di musicisti cubani; a Pina (2011), pionieristico omaggio in 3D alla coreografa Pina Bausch e al suo “teatrodanza”; o a Il sale della terra dedicato a Sebastião Salgado (2014): che affascina non solo per le straordinarie immagini del fotografo brasiliano, ma testimonia altresì il tragitto interiore di colui che, dopo aver documentato le condizioni di lavoro più disumane al mondo e le peggiori atrocità della guerra – in particolare quella in Ruanda nel 1994 - non finiva, e c’è mancato poco, nel baratro della depressione, di un definitivo scoramento per un’umanità che mai impara dai propri errori e quindi sempre li ripete, ma sceglieva di tornare alla sua terra natia e da lì ripartire, rimboscando ettari di terreno desertificato (da quell’esperienza nacque una riserva naturale e l’Istituto Terra, che si occupa di riforestazione e protezione dell’ambiente). Da ultimo è arrivato Un uomo di parola (2018), un lustro dopo la richiesta del Vaticano di concepire un documentario sul Pontefice appena eletto, lasciando al regista carta bianca. Ne è nato un altro unicum nella storia della settima arte – anche per la scelta d'indirizzare lo sguardo del Papa direttamente in telecamera, per dare la sensazione di un dialogo diretto con lo spettatore.
Il film è stato prodotto - tra gli altri - da Samanta Gandolfi Branca, Alessandro Lo Monaco di Celestes Images e Andrea Gambetta di Solares Fondazione delle Arti con il Centro Televisivo Vaticano, distribuito da Focus Universal.
Dopo quello della Berlinale nel 2015, Wim Wenders ha ricevuto nel 2018 un altro premio alla carriera. Glielo ha conferito lo Zurich Film Festival, rassegna nata nel 2005 che sta profilandosi per la capacità di coniugare glamour e attenzione al sociale (tra i suoi partners c’è Amnesty international e Medici senza frontiere).
Un’occasione per raccontare qualche retroscena: ad esempio l’aver realizzato di voler davvero fare il regista solo dopo il quarto film (“mentre a mia madre ce ne sono voluti dieci per rinunciare all’idea che diventassi medico; e per capire che questo è un mestiere vero…”). E per lanciare un appello a favore del cinema come esperienza condivisa anziché consumata in solitaria. Per questo ha dedicato il premio a Netflix e Amazon, con l’auspicio che i loro film vadano anche nelle sale. Ricordando così il tema della vicinanza e dell'ascolto che a suo giudizio stanno al cuore del messaggio di Papa Francesco, “l’unica autorità morale” del nostro tempo, scandisce, per il coraggio e la radicalità con cui incarna una chiesa povera, ecumenica e anticapitalistica. Di questo ed altro abbiamo parlato con il regista il giorno della premiazione.
Che cosa ha significato per lei affiancare documentari alla fiction?
Nei documentari trovo più libertà, maggiore senso di avventura. Lo scenario dei lungometraggi si è fatto ormai piuttosto prevedibile, più di quanto mi piaccia. La mia forza sta nel lavorare a film in cui possa cambiare rotta, film senza sceneggiatura o gran parte di essa. Nella fiction oggi questo è diventato praticamente impossibile. Con i documentari invece si dà per scontato che il regista possa non sapere esattamente dove lo porterà la storia.
Da giovane voleva diventare sacerdote. Cosa le ha fatto cambiare idea?
L’arrivo dei film e del rock'n’roll nella mia vita. Una grande tentazione, giunta all’improvviso, a cui non ho resistito. Succedeva all’inizio degli anni '60, l’epoca dei Beatles, di Bob Dylan... era la mia generazione (tra le mie canzoni preferite c’era proprio My generation degli Who), un’intera generazione che ha cercato di ridefinire i propri obiettivi, e così ho fatto anch’io. Ma non sono diventato ateo. Ho lasciato, sì, la Chiesa cattolica, nel 1968, da studente socialista. Poi, alla fine degli anni '80, sono rientrato nel grembo del Cristianesimo dall'altra porta, convertendomi al protestantesimo.
Per quale ragione?
Perché credo in Dio, non in una chiesa. Mi sento un cristiano ecumenico. Ritengo che la religione organizzata crei parecchi problemi e impedisca a molti di entrare in contatto con Dio.
Secondo lei il cinema può assolvere a funzioni analoghe a quelle di una chiesa?
Il cinema è uno strumento potente, di grande ricchezza, e riveste molteplici funzioni. Può, tra l’altro, fungere anche da chiesa. Nel passato è successo di frequente. Alcuni dei miei registi preferiti come Carl Theodor Dreyer, Robert Bresson o Andrei Tarkovsky fanno un cinema spirituale: che resta, a tutt’oggi, una delle innumerevoli possibilità dell’arte cinematografica. I film possono essere qualsiasi cosa, possono parlare di tutto e devono anche continuare a farlo e a poterlo fare. Mi costerna molto il fatto che oggi, in modo strano, ha preso piede una definizione alquanto limitata di cinema, che lo riduce a mero intrattenimento. L’entertainment è senz’altro una sua funzione importante, certo non la sola. Un film può fare molto di più. Può dirci che siamo capaci di essere migliori e talvolta mostrarci un mondo migliore; o almeno la possibilità della libertà d’immaginare un mondo migliore. C’è ancora chi lo fa e vedo sempre più documentaristi convinti che il mondo si possa cambiare. Invece in genere i film d’intrattenimento non fanno che convalidare l’ineluttabilità di un mondo che va bene così com’è.
Per il suo ultimo film ha girato otto ore di intervista con il Pontefice nel corso di ben due anni. Che impressione ne ha tratto?
Di una persona capace davvero di parlare a tutti. Papa Francesco non si rivolge esclusivamente ai cattolici e neppure ai soli cristiani. Parla a ognuno di noi, parla anche ai musulmani, e il suo miglior amico è un rabbino. Può suonare radicale, ma credo che questo Papa rappresenti non tanto la Chiesa, ma le persone di buona volontà in un’accezione molto ampia. Credo stia cercando di promuovere la pace tra le religioni, perché alla fin fine non ce n’è mai stata molta, di pace, tra credi diversi. Penso sia questo uno dei compiti immani che sta cercando di affrontare. D’altronde, quale leader politico è stato sia al Muro del Pianto a Gerusalemme sia al muro che divide Israele e i territori palestinesi? Non lo fanno. Quest’uomo invece si reca ovunque vi sia dolore, dimostrando un coraggio straordinario.
Quanto il suo incontro con il Papa la ha cambiato e come ha influito sulla sua fede?
In un certo senso ha cambiato il mio atteggiamento, perché ho realizzato che quest’uomo non ha paura. Non solo è coraggioso, è davvero completamente privo di paura. Rappresenta un esempio per tutti, a prescindere dalla professione di ciascuno; e per quanto mi riguarda ho anche capito che alcuni dei miei film erano stati guidati dalla paura – di non poter fare questo o quest’altro… Mi ha insegnato ad essere più convinto di me stesso.
La posizione del Papa è stata duramente criticata da frange conservatrici interne alla Chiesa, penso ad esempio alla corrente capeggiata dal cardinale ultraconservatore Leo Burke o a quella dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò [da non confondersi con monsignor Dario Edoardo Viganò, colui che contattò Wenders nel 2013 per il film] – come pure da chi lo accusa di non fare abbastanza. Cosa ne pensa?
Ritengo che Papa Francesco abbia un’apertura incredibile. Ciò significa anche tolleranza zero quando parla di pedofilia. Cerca di rendere trasparente una rigida organizzazione, ma gran parte del clero osteggia la trasparenza e l'apertura. Molti suoi critici non amavano la sua politica precedente. Credo che stiamo assistendo a una battaglia di dimensioni epocali, tra le più impressionanti del nostro tempo; contro quanti non accettano la chiesa guidata dall'attuale pontefice, l'apertura e la tenerezza che egli rappresenta. Papa Francesco rimane saldo e mantiene le proprie posizioni, ma combattere le forze conservatrici interne da un lato e l'intero cosiddetto mondo liberale dall'altro resta un’impresa estremamente ardua.
Con Pina (2003) lei ha realizzato per primo un film interamente in 3D. C’è chi considera il 3D un’innovazione dalle grandi potenzialità che, insieme alle cosiddette virtual e augmented realities, attiene a quella sorta di ‘rivoluzione digital’ a cui in molti ‘credono’ quasi religiosamente. Lei come la vede?
Da sempre mi interessa ciò che potenzia i nostri mezzi, il linguaggio e le opzioni che ci permettono di capire meglio la realtà in cui viviamo. Tuttavia parte della società contemporanea produce proprio quel che ci rende più soli, penso soprattutto ai cosiddetti social media, che sono tutt’altro che social(i). La cultura digitale concorre a isolare le persone. Sono stato felice dell’arrivo del digitale come pure del 3D, ma non credo che la realtà virtuale o la augmented reality possano diventare strumenti narrativi. Penso afferiscano piuttosto alla sfera dell’intrattenimento e della distrazione. Con la realtà virtuale te la vedi da solo: puoi anche collidere con chi ti sta vicino, ma senza vederlo, il che è piuttosto triste. Quanto al 3D, credo sia stato un fantastico ampliamento del nostro vocabolario, e trovo piuttosto scandaloso per la storia del cinema che la film industry abbia soppresso questo strumento straordinario sottraendogli la possibilità di dimostrare le proprie potenzialità - poetiche e sociali. Il 3D è stato relegato ai film per bambini, d’animazione o ai blockbusters d’azione. È stato deliberatamente distinto da ogni altro genere, circoscrivendone il territorio e impedendo qualsiasi interferenza con altre aree. Per uno dei mei ultimi film avevo pensato al 3D, ma non c’è stato verso di convincere gli attori, che erano comunque disposti a lavorare con me, o i loro agenti – in sostanza perché viene considerato un medium poco serio e sensazionalistico. Sono stato l’ultimo dei mohicani finché non ho capito che era una battaglia persa.
Questo cambiamento è avvenuto dopo Pina?
Dopo Pina pensavo che molti se ne sarebbero serviti. Il 3D è uno strumento straordinario per qualsiasi rappresentazione della natura; è favoloso per quanto riguarda l’architettura; e secondo me funziona anche per lo storytelling perché ti coinvolge, ti fa immergere in una storia, attiva aree del cervello che partecipano all’esperienza molto più di quanto accade con lo schermo piatto. Insomma produce un’espansione a tutti gli effetti. Purtroppo non è andata così.
Quanto è potente il messaggio del Papa nella nostra era digitale, di rapidi mutamenti? Può davvero raggiungerci?
La questione della vicinanza, della prossimità è uno dei messaggi che gli stanno più a cuore; nella sua lingua si dice “cercanía”. Che la vicinanza reale stia diventando un vero e proprio lusso fa parte delle peggiori malattie della nostra epoca. Una delle cose più straordinarie che ha detto il Papa durante l'intervista è qualcosa, in fondo, di molto semplice. “Perdete tempo con i vostri figli?” era solito domandare ai genitori durante la confessione. È uno dei grandi problemi culturali e sociali del nostro tempo. Molti dei miei amici hanno figli o nipoti. Sono felice di essere diventato nonno anch'io. Ma quanti giovani genitori mandano i loro bambini all’asilo per vederli solo mattino e sera? Sono sempre meno i genitori capaci di ‘sprecare’ tempo con i propri figli. Credo questo sia dovuto in misura non trascurabile alla valanga digitale che ci sommerge quotidianamente. Siamo sovraccarichi di informazioni, dati e cose da fare contemporaneamente. Un bambino di due anni ormai sa usare lo smartphone meglio di me. Ma la dipendenza digitale è una malattia perché ci isola e annulla la prossimità: fa scomparire il bisogno di incontrarsi, di trascorrere del tempo insieme. Conosco tanti giovani che non hanno rispetto per le loro prime esperienze; preferiscono affidarsi a esperienze altrui che ricavano dal piccolo schermo. Non so che cosa possa fare il Papa rispetto a tutto ciò. Indubbiamente si tratta della grande sfida del nostro tempo, tornare alle esperienze dirette e riappropriarsi di un contatto reale con persone e cose.
Pare che, in media, i più tocchino la superficie dello smartphone migliaia di volte al giorno.
Già, e che fare se al cinema il tuo vicino continua a spedire messaggi? Sono mezzi di distrazione che finiscono per rendere incapaci di sedere e guardare, ad esempio, un film. La bellezza del cinema, come del teatro naturalmente, sta proprio nel condividere in tempo reale: condividere l’esperienza stessa di ascoltare insieme un pezzo musicale, una narrazione - e non dev’essere per forza una voce, può essere un flusso di immagini: è un’immersione comune. Una capacità che molti hanno perso. D’altronde i maggiori produttori ormai sono Netflix e Amazon: che dispongono di molti più mezzi di produzione dei vecchi studi cinematografici e producono film che generano esperienze solitarie. Certo, puoi avere un bimer e invitare gli amici a casa, ma i più si guardano lo spettacolo da soli sul monitor. L’esperienza condivisa va scomparendo… per questo amo i festival cinematografici, e sono felice di essere al festival di Zurigo.
Quanto contano le domande e quanto le risposte nell’elaborazione dei suoi film?
Ogni mio film nasce da una domanda. E se trovo risposte o se, invece, la domanda permane, dipende dal processo che si è attivato, anzi fa parte di quello stesso processo. Può essere che arrivi una risposta o che lo sviluppo sollevi nuovi interrogativi. E tutto ciò va seguito e realizzato in modo tale da invogliare il pubblico a rimanere con te ‘scomparendo’ per 90 minuti o un paio d’ore. Oggi però il pubblico è abituato ad essere preso per mano. A me piacciono i film che lasciano più spazio tra le immagini e i dialoghi, così da poter sognare. Amo un cinema aperto che permetta a ciascun spettatore di crearsi – per così dire – il proprio film. Nella mia idea di cinema il film esiste solo nella testa di chi lo vede ed è quindi sempre diverso. Penso inoltre che il cinema, in accordo con la sua stupenda visione originaria, faccia sognare, aiuti realmente a sognare. Ma oggi i sogni sono perlopiù fabbricati. Leonard Cohen in "Anthem" canta “c'è una breccia in ogni cosa / ed è da lì che entra la luce”. Oggigiorno molti film, soprattutto fictions, non lasciano aperta quella breccia. E non lasciano sognare.
Ci sono registi che a suo parere ancora lo fanno?
Oh, moltissimi…. In Europa grandi registi s’imbarcano ancora in lavori davvero avventurosi, anche in America si vedono cose interessanti. Ho appena visto Cold War di Pawel Pawlikowski: ottimo esempio di film realizzato nella migliore tradizione dello storytelling in una struttura aperta. Ma resta difficile competere con le grandi produzioni prefabbricate, per così dire.
Il cambiamento a cui si riferisce può essere fatto risalire agli anni Ottanta e all’avvento dei blockbusters?
Risale a parecchi anni fa. Moltissimi film vengono ormai costruiti su - o si ispirano a – parti di altri film, le storie originali sono diventate l’eccezione. Tuttavia non mancano, anche qui, opere notevoli. Penso a Blade Runner [di Ridley Scott], uno dei miei film preferiti in assoluto. Ero molto preoccupato prima di andare a vedere il sequel, temendo fosse un disastro, come lo è la maggior parte di sequels e remakes. Invece Blade Runner 2049 ha superato ogni mia aspettativa: è una vera e propria storia contemporanea di science fiction… perché un film di fantascienza mette in scena quel che adesso ci aspettiamo accadrà nel futuro. Così i film fantascientifici contengono spesso osservazioni molto più accurate rispetto a quelli sul presente: e Denis Villeneuve ne offre un esempio semplicemente grandioso. Le sorprese non mancano, insomma, benché oggi la maggior parte dei film si attenga a formule precise, mentre i documentari ne sono in buona misura dispensati – non intendo i classici documentari per la televisione, ma quelli che, esplorando di volta in volta un determinato soggetto, si immergono in un mondo a sé.
I lavori di Alex Gibney ad esempio [regista, fra l’altro, di Taxi to the Dark Side (2009) e Going Clear: Scientology e la prigione della fede (2015), e produttore di L'anima di un uomo (2003) dello stesso Wenders].
Ottimo esempio. Un grande autore e un buon amico.
Che cosa a suo parere è maggiormente cambiato, oggi, rispetto agli anni Settanta-Ottanta?
Le passioni, le mode, il pubblico… Il packaging. È il ‘confezionamento’ del business, dei prodotti, della moda ad essere cambiato: in una parola, oggi è il business a guidare le idee. Quando ho iniziato a fare film era il contrario, le idee guidavano il business.
Ed è questo che più le manca?
Quel che mi manca di più è che bisogna fare i conti non solo con il concept del film, ma anche con il business plan; e lì ci deve entrare l’intero progetto. La colonna sonora dev’essere commercializzabile, tante piccole cose…
Lei è stato fra i primi, peraltro, a creare colonne sonore molto commercializzabili…
Lo sono state quando avevano senso all’interno del film… (ride). A volte la colonna sonora funziona meglio del film: come è successo ad esempio con Until the End of the World…
Ha funzionato meglio per lei o per il pubblico?
Era ancora un tempo di relativa libertà. Il film venne girato nel 1990 e costò 24 milioni (di dollari) del tempo, il che significò una grande libertà. Era un film d’autore, probabilmente uno dei film d’autore più costosi mai realizzati. Altrettanto probabilmente fu quella una delle ultime volte in cui un regista poté disporre di tanta libertà.
Il tema del film si riconnette a quello di cui abbiamo parlato poco fa, i potenziamenti tecnologici, le tentazioni del virtuale…
È stato un tentativo di anticipare il futuro, sì...
E in un certo senso ci è riuscito…
Ha cercato di immaginare come si sarebbe evoluto il settore audiovisivo, ne è emerso un quadro che non mi pare poi così distante dalla nostra realtà quotidiana.
Gli somiglia parecchio.
Abbiamo persino inventato il motore di ricerca prima che chiunque ne parlasse!
Per concludere, a cosa sta lavorando attualmente?
A un documentario sull'architetto svizzero Peter Zumthor: il suo lavoro, le sue opere e il suo metodo. Alla Biennale di Architettura di Venezia, nel 2016, abbiamo presentato un primo cortometraggio su di lui. È un progetto che sta prendendo forma lentamente e richiederà diversi anni. Nel frattempo, probabilmente, mi dedicherò anche ad altro.
Giovanni Sorge
*Il presente articolo è stato originariamente pubblicato su Lettera43 e viene qui riproposto dall'Autore in seguito alla chiusura della testata.
Immagini:
Win Wenders, ph Arturo Delle Donne
Win Wenders e Papa Francesco, ph Arturo Delle Donne
Win Wenders coi produttori da sx: Andrea Gambetta, Wim Wenders, Samanta Gandolfi Branca, Alessandro Lo Monaco a Cannes prima del red carpet (phcortesia di Samanta Gandolfi Branca).