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Le tradizioni: i Carbonai

Policarpo Petrocchi muore il 25 agosto 1902 a seguito di un malore mentre partecipa a una festa nella piazza di Castello di Cireglio. Per gli uomini che andranno in Maremma o in Corsica a tagliare la legna e fare il carbone, quella festa sarà l’ultima occasione sociale di incontro prima della partenza che avviene, quasi sempre, dopo i Morti, come si chiama in Toscana la commemorazione dei defunti, il 2 novembre. 

Agli inizi del Novecento un manuale Hoepli individua nell’Appennino Pistoiese il gotha del mestiere in Italia. I carbonai sono eredi di un sapere tecnico antico, descritto già da Plinio il Vecchio, che si apprende vivendo nel gruppo fin da piccoli, quando si fa il meo, in pratica il garzone. Probabilmente meo è una contrazione di sanbartolomeo come venivano chiamati i ragazzi pistoiesi sempre escoriati come il loro santo patrono. 

I carbonai trascorrono mesi interi in capanne nei boschi, lontani da casa, ma a volte con la famiglia, per “cuocere la legna” e produrre il carbone vegetale. In Italia, povera di risorse energetiche, il carbone di legna arriverà nelle case, a differenza di altri paesi europei, fino agli anni ’50 del Novecento. Isolati nel bosco, con la pelle scurita dalla fuliggine, alimentano anche l’immaginazione dell’omo nero

 La loro è una vita dura – “tribolata”, come la chiama una delle più celebri poesie in ottava rima su di loro -, non solo per le condizioni di vita, ma anche per lo sfruttamento a cui sono sottoposti. “Lavoro continuo, pochissimo riposo, prezzi bassi, nutrimento cattivo. 

A questo aggiungasi – scrive nel 1901 “La montagna pistoiese” – che i principali obbligano i carbonai a servirsi delle dispense padronali ove fanno loro pagare il granoturco, il formaggio e la carne salata, unici loro cibi, il doppio e il triplo del prezzo reale, e che spesso alla fine non pagano il credito degli operai, onde essi se ne ritornano a casa non riportando il più delle volte che le febbre malariche”. 

Acqua di fosso, polenta di granone/ lavora tu padrone, che io non posso, sintetizza un detto. 

 Policarpo Petrocchi è una delle pochi voci a difendere pubblicamente i maremmani. Li raduna nella piazza di Castello di Cireglio, li chiama con la campana, “consiglia, ammaestra, ammonisce”. Se ce ne è bisogno li agguanta uno ad uno. Nel settembre 1896 vuol formare una “lega di carbonai per far cessare gli abusi che i padroni fanno all’operaio”. Parla, discute, cerca di convincere ed opera con la solita tenacia con cui aveva lavorato per migliorare il suo paese, sopportando “spine”, “bene” e “beghe” e fondando nel 1880 con “ i capi famiglia di Castello” la Società di mutuo soccorsoOnore e lavoro” sorta per “ migliorare come e meglio si può la condizioni morali e materiali del paese”. 

La morte interromperà questo impegno che aveva iniziato sei anni prima e dato già qualche frutto: nel 1901 quando sorge la Camera del lavoro di Pistoia gli iscritti raggiungono ben presto i 1500 con l’adesione di 700 carbonai. 

 Ma i carbonai non scompariranno. Continueranno per un altro mezzo secolo ad andare in Maremma e in altre regioni. Quando nella stessa capanna, la baracca, arriva la bombola a gas sarà il segno della fine del mestiere. Non c’è più bisogno del carbone di legna. 

Nonostante che le cronache, di tanto in tanto, continuino a presentare un carbonaio come l’ultimo testimone di un mestiere estinto, è ancora possibile vedere nell’Appennino Pistoiese una carbonaia “su piazza” che fuma. L’odore, un misto di acido acetico e alcol metilico, si sente da lontano. Il carbone, ottimo per le cotture su griglia, oggi si fa per passione.

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