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“I’ son Beatrice che ti faccio andare”: fede e ragione in un verso del Canto II dell’Inferno

20 Maggio 2021
“I’ son Beatrice che ti faccio andare”: fede e ragione in un verso del Canto II dell’Inferno
di   Foto: Erica Dozza Erica Dozza

Ormai vicino alla porta degli inferi, Dante esprime a Virgilio i suoi dubbi circa la possibilità di mantenere l’impegno di seguirlo nel difficile itinerario di rinnovamento spirituale che lo condurrà fino alla "ianua coeli".

Nel canto II dell’Inferno, ormai vicino alla porta degli inferi, Dante esprime a Virgilio i suoi dubbi circa la possibilità di mantenere l’impegno, preso al momento dell’incontro con il maestro (1), di seguirlo nel difficile itinerario di rinnovamento spirituale che lo condurrà fino alla ianua coeli. Il viaggio oltremondano non è impossibile per Dante, in quanto l’esperienza mistica apparteneva all’immaginario del mondo medievale e doveva essere umilmente accettata perché voluta da Dio. Dante crede infatti che non solo Paolo ma anche Enea siano stati eletti dalla divina provvidenza per l’eccezionale viaggio: “Ma io, perché venirvi? O chi ‘l concede?/ Io non Enea, io non Paulo sono;/ me degno a ciò né io né altri ‘l crede” (2). La ripetizione del pronome personale sottolinea una consapevolezza che diventerà profonda convinzione dell’agens già nel corso del viaggio infernale: l’umana “virtù” non è sufficiente. Per quanto elevate siano le potenzialità razionali e morali, esse sono limitate e non possono attingere al divino.

A tale proposito ricordiamo l’episodio dei magnanimi, desiderosi della grazia e della salvezza ma per sempre privi di esse (3)  , o le famose parole di Cavalcante nel X canto: “Se per questo cieco/ carcere vai per altezza d’ingegno,/mio figlio ov’è? E perché non è teco? (4)” Qui l’enjambement evidenzia come l’intelletto, per quanto perfezionato dagli studi e dalla riflessione filosofica, resti privo di luce e condanni all’eterno carcere, se non accoglie la fede. E’ questa che muove la ragione. Rispondendo a Cavalcante, il poeta accenna infatti in modo discreto a Beatrice e alle premesse religiose del viaggio (5) .

 Virgilio, vissuto “nel tempo de li dei falsi e bugiardi”, nella dimensione eterna della morte è forma perfectior, pertanto ora conosce la verità che non ha visto in vita e nel II canto scioglie le esitazioni del discepolo. Prima lo esorta alla forza morale e al dovere di migliorarsi e poi gli rivela come il mistico viaggio abbia un “prologo in cielo”: “tre donne benedette/ curan di te ne la corte del cielo” (5). Beatrice stessa è scesa (7) nel “nobile castello” e ha invitato Virgilio a soccorrere Dante in grave difficoltà a causa delle tre fiere: “I’ son Beatrice che ti faccio andare”. Beatrice muove Virgilio -“or movi”- , la fede muove la ragione ad aiutare il poeta in una condizione prossima allo smarrimento, tanto “che volt’è per paura”, sta per tornare indietro, mentre si trova sulle pendici del colle.

 Il viaggio dunque non è sostenuto solo dall’intelletto, non è il “folle volo” di Ulisse, ma avviene alla luce della grazia, è voluto dalla divina misericordia che affida a Dante il compito di ricondurre se stesso e l’umanità al rectum iter. Ma come si è liberato dalla “selva”, che il poeta con significativa annominazione chiama “selvaggia” a indicare la violenza, il disordine, l’errore di cui essa è allegoria? Come ha trovato la forza di volontà per liberarsi dalla notte angosciosa e intraprendere la salita del “dilettoso monte” illuminato dai raggi del sole? 

 L’esperienza oltremondana di Dante ha una valenza universale, egli dovrà condividere con gli altri quanto gli sarà rivelato e indicare la via della salvezza, simboleggiata dai viaggi di Enea e Paolo, ma il prologo del poema vede la presenza insistita del pronome di prima persona. L’auctor ricorda il male -“la diritta via era smarrita”- ma anche il bene incontrato dall’agens nel suo sviamento: “ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, / dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte”. Il cristiano cade nell’errore, se ne compiace e cerca giustificazioni, ma il pentimento induce a riacquistare il “ben de l’intelletto”, il bene supremo ovvero la fede in Dio e la Verità (8)  . 

 Anche la Vita Nuova propone un episodio di sviamento e redenzione (9). “Una donna gentile, bella, giovane e savia” dopo la morte di Beatrice mostra di partecipare al lutto del poeta; così diverse volte Dante cerca di “vedere questa pietosa donna” per trovare consolazione al suo dolore, in realtà dilettandosi e consentendo ad amore. La ragione gli indica la vanità di tale interesse, ma è la visione di Beatrice che lo induce a pentirsi e abbandonare “cotale malvagio desiderio”. 

Nel Convivio Dante attribuisce alla “donna gentile” un significato allegorico, per cui dell’episodio possiamo dare due letture connotative, una conoscitiva e metodologica e una etica. Nella prima e seconda canzone dell’opera, rispettivamente commentate nel secondo e terzo trattato, l’interesse per la “donna gentile”, “saggia e cortese ne la sua grandezza” (10), diviene attenzione per la teologia razionalistica, indicando come nel periodo del così detto traviamento il poeta desiderasse conoscere la verità con una rigorosa indagine filosofica, come volevano alcune scuole dell’aristotelismo, e riconoscesse alla ratio un ruolo, se non preminente, certo non limitato a quello di ancilla fidei. Il discorso però non riguarda solo la conoscenza, ma coinvolge anche l’etica cristiana: il pellegrino nella città terrena deve rafforzare le virtù razionali della vita attiva, camminare sulla retta via e operare per la giustizia, la convivenza civile e la pace. Nelle pagine dedicate alla donna “saggia e cortese”, quest’ultima prevale sul “soave pensier, che se ne gìa/ molte fiate a’ piè del nostro Sire,/ ove una donna gloriar vedìa” (11) , prospettando un itinerario etico e forme conoscitive che vedono il primato della ragione sulla fede, della scienza sulla sapienza e delle virtù della vita attiva sulle virtù teologali.

Da questo punto di vista è rilevante l’aggettivo “savia”, che qualifica la “pietosa donna” come saggia in termini classici, ovvero rivolta all’esercizio delle virtù terrene, mentre Beatrice è sapiente nel senso cristiano del termine. Virgilio nei suoi limiti conoscitivi è “famoso saggio” o “savio gentil, che tutto seppe” (12) , Beatrice è “donna di virtù”, “beata e bella” (13) . Gli aggettivi “savia”, “saggio”, “beata e bella” richiamano la distinzione agostiniana fra ratio inferior e ratio superior, scientia e sapientia (14) , diversità evidenziata poi da Bonaventura (15) , per cui la vera conoscenza è quella del sapiente, rivolto prima all’amore di Dio e alla vera patria, poi alla Gerusalemme terrena. Diversamente da quanto insegnavano i Dottori della Chiesa, Dante in un periodo della sua vita si sarebbe allontanato dall’iter che Beatrice gli aveva indicato e avrebbe provato più interesse per l’azione che per la contemplazione, anteponendo il contingente all’eterno, la scienza alla sapienza.

 Nella seconda canzone, Amor che ne la mente mi ragiona, si può rilevare anche l’ indicazione del metodo conoscitivo. Qui Dante loda la virtù e bellezza della donna gentile e pietosa con queste parole: “Di costei si può dire…/ …che ‘l suo aspetto giova/ a consentir ciò che par meraviglia;/ onde la nostra fede è aiutata:/ però fu tal da etterno ordinata” (16). Le proposizioni presentano una sorta di chiasmo, la filosofia aiuta la fede, la fede è aiutata dalla filosofia, per questo Dio ha voluto la filosofia nel disegno di ordine della creazione. La fede è collocata nel posto di termine medio e il sintagma sembra indicare la priorità della ragione nel percorso di salvezza, per quanto ragione e fede abbiano fra loro un rapporto di reciprocità e debbano essere fra loro conciliate. Però nella tradizione cristiana, che sull’argomento risale al profeta Isaia (17) , il punto di partenza del percorso conoscitivo è la fede, che tuttavia non esclude, ma richiede l’ausilio della ragione. “Malvagio desiderio” o “avversario della ragione” è dunque un uso non corretto di essa sotto il profilo conoscitivo ed etico; allora Beatrice interviene per ricondurre il pellegrino sulla retta via dell’umiltà e dell’accoglienza della misericordia divina: “Contra questo avversario de la ragione si levoe un die, quasi ne l’ora de la nona, una forte immaginazione in me, che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei”. La “mirabile visione” rinnova l’amore per la “gentilissima”, amor supra nos, nella luce di Dio, “Alfa e O” (18) di tutti gli affetti e di ogni conoscenza. 

La contrizione, la preghiera, l’umile richiesta di aiuto a Dio misericordioso, la speranza di salvezza, l’amore di carità, la fede in Cristo liberano dunque Dante dalla “selva oscura” e gli consentono di arrivare al colle inondato di luce. In tale processo di superamento della ragione si avverte la presenza di Agostino e l’esortazione del Santo a seguire la voce interiore della commiserazione e perdono di Dio (19). 

E’ il momento iniziale del lungo e difficile percorso che condurrà il viandante alla riacquisizione del libero arbitrio; occorre grande fermezza per superare la condizione di peccatore, poiché la salita del biblico colle delle virtù umane (20)   è impegnativa e il peso del corpo continua a poggiare sul piede sinistro, che resta in basso, frenato dalle passioni terrene e ancora incapace di portarsi all’altezza del destro. Le metafore del colle e del “piè fermo” vengono al poeta da alcune autorità, dalla Bibbia, sant’Agostino, Bonaventura e indicano rispettivamente in forma allegorica il rectum iter e gli impedimenti mondani che lo ostacolano, per superare i quali non sono sufficienti la volontà e la ragione, in quanto occorre affidarsi alla grazia. Nella speranza che “sul monte il Signore provvederà” (21), il poeta guarda “in alto” verso la luce del sole, verso il “pianeta/ che mena dritto altrui per ogne calle” (22) , e a quella vista ritrova un poco della pace perduta durante la notte trascorsa nel buio della selva. La divina misericordia lo guida infatti sulle pendici del colle, lungo la via del bene.

 Il canto I, in quanto proemiale a tutta l’opera, esprime la convinzione ormai fatta propria dall’auctor, secondo la quale nel percorso di salvezza la ratio è termine medio. Non è la filosofia che aiuta la fede, ma la fede che si perfeziona con la filosofia, per poi volgersi alla Verità della divina contemplazione. Come insegnava Anselmo d’Aostala fede cerca l’intelligenza” e questa “cerca di capire ciò che crede” (23) . I primi 18 versi del canto indicano dunque l’itinerario effettuato: l’agens, ritrovato il “ben de l’intelletto”, si affida alla ragione per rinnovare le virtù della vita attiva e insieme innalza lo spirito a contemplare la luce di Dio. 

Il capitolo V della Vita Nuova, dedicato alla prima donna schermo, accenna allo stesso percorso conoscitivo, sebbene in un contesto differente. L’episodio a livello denotativo richiama un canone dell’amor cortese, quello della discrezione dell’amante nei confronti dell’amata e quindi dell’amor celato. Per evitare che Beatrice sia oggetto di maldicenza, ma per poterla guardare mentre si trovano in Chiesa, il poeta sceglie come schermo una “gentile donna” che “nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea”. I malparlieri pensano che lo sguardo di Dante si fermi sulla donna gentile, in realtà Dante è rivolto alla sua “beatitudine”. I riferimenti spaziali hanno valore simbolico, come indicano le parole chiave, poi ripetute : “colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei”. Il pellegrino per Dante deve appartenere alla comunità ecclesiale e muoversi sulla retta via delle virtù cristiane, se vuole arrivare alla civitas Dei. Nell’episodio i due estremi della “retta linea”, la presenza in Chiesa e la “gentilissima”, sono simbolo della fede, la “gentile donna” è il mezzo nella “linea retta”, è il termine medio, la ragione; se la vista si fermasse su di lei, ma questo non avviene, la fiducia eccessiva nella ragione sarebbe “schermo de la veritade” e la conoscenza resterebbe incompleta. 

Dante ripropone il dibattito presente nel pensiero cristiano circa il primato di ragione o fede, o meglio la domanda se nell’itinerario di conoscenza della Verità venga prima la ragione o la fede. La soluzione è conciliativa; Bonaventura indica come esempio Agostino stesso, a cui lo Spirito Santo aveva dato il linguaggio della sapienza e della scienza per svolgere il lavoro di espositore delle Scritture (24). Pur attenendosi a questo criterio, i Dottori della Chiesa vivevano la convinzione che il primo passo nell’itinerarium in Deum è un atto di fede e il gradino finale dell’ascesa a Dio, la visione mistica, è un atto di amore. 

Bonaventura, attento al Vangelo di Matteo (25), attribuisce al Sermo IV De rebus theologicis il titolo Christus unus omnium magister, cioè maestro di conoscenza razionale e contemplativa, scienza e sapienza: Ipse Christus est autem fons omnis cognitionis rectae. Ipse enim est via, veritas et vita, Ioannis decimo quarto (26). Poichè Cristo è auctor e doctor, ovvero director et adiutor nostrae intelligentiae (27), guida spirituale che perfeziona lo spirito, risulta evidente quo ordine perveniatur ad sapientiam, ovvero, incipiendum a fide, attraverso tre gradi , di cui la ratio è il termine medio. Ordo enim est, ut inchoetur a stabilitate fidei et procedatur per serenitatem rationis, ut perveniatur ad suavitatem contemplationis; … Hunc ordinem tenuerunt Sancti, attendentes illud Isaiae, secundum aliam translationem: Nisi credideritis, non intelligetis. Hunc ordinem ignoraverunt philisophi, qui, negligentes fidem et totaliter se fundantes in ratione, nullo modo pervenire potuerunt ad contemplationem… (28). Il Dottore Serafico scrive ancora nel Prologo all’Itinerarium mentis in Deum: “Invito perciò il lettore prima di tutto alla preghiera... affinché non si illuda che possa bastare le lettura senza la pietà, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza l’ammirazione, l’attenzione senza la gioia, l’attività senza la pietà, la scienza senza l’amore, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la Grazia, l’intuizione e la ricerca umana senza la sapienza ispirata da Dio.” (28)  Admiratio (29),  parola chiave nelle opere dei pensatori cristiani, “ciò che par meraviglia” scrive Dante in “Amor che ne la mente mi ragiona”, ed è proprio questo stupore, ammirazione e meraviglia che costituisce il primo passo della complessa semita che conduce il pellegrino alla salvezza. Lungo la faticosa salita della montagna del Purgatorio, una fatica fisica e intellettuale, Dante perfezionandosi nella fede comprende in modo sempre più chiaro e addirittura precisa le spiegazioni scientifiche di Virgilio (30) , per superarlo infine, quando il maestro e “dolcissimo patre” lo affida a se stesso, in quanto l’agens è ormai signore di sé e nella vita attiva e in quella contemplativa: “per ch’io te sovra te corono e mitrio” (31). 

Nel cielo superiore del Paradiso gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, su invito di Beatrice, sottopongono il pellegrino ad esame sulle virtù teologali (32) ; l’esame è modellato su quello delle università e per rispondere il “baccelliere” Dante segue il principio di autorità , il metodo sillogistico e il linguaggio scolastico, ispirandosi alle argomentazioni di san Tommaso. Ma il prevalere della tendenza razionalistica in questi versi di “poesia dell’intelligenza” è solo conferma della fede di Dante e preparazione all’incontro col mistico per eccellenza, votato al culto mariano, san Bernardo

 Sulle pendici del “dilettoso monte” il viandante deve ancora acquistare sicurezza e proprio allora le tre fiere ne impediscono il cammino tanto da risospingerlo verso la selva. Nella corte del cielo interviene Maria, advocata nostra, a mitigare il “duro giudicio” divino ed è così possibile l’opera di Lucia, grazia illuminante, e di Beatrice che, scesa nel "nobile castello”, chiede aiuto a Virgilio e lo ringrazia con parole significative: “Quando sarò dinanzi al segnor mio,/ di te mi loderò sovente a lui” (33). Ed è Beatrice, “loda di Dio vera”, perché la sua gentilezza spirituale esalta il Creatore o perché rappresenta la teologia o meglio la fede, a muovere Virgilio dalla sua sede negli inferi in soccorso di Dante. 

La collocazione di alcuni versi del canto introduttivo, nell’avvicendarsi del tema fede, ragione e fede, ovvero della fides quaerens intellectum, esprime dunque la convinzione dell’auctor circa l’ordine da seguire nell’iter conoscitivo della verità. Se i primi 18 versi del canto iniziano con la rinnovata fede dell’agens, proseguono con il colle della retta via e si chiudono con l’immagine del sole, figura Dei, che ne illumina la vetta, al verso 63 troviamo il sintagma “chi per lungo silenzio parea fioco”. Si tratta dell’apparizione improvvisa di Virgilio, la cui ragione, così alta nei limiti umani, ha trovato in morte il compimento nella consapevolezza dell’impossibilità di salvarsi senza la grazia. La ragione illuminata dalla fede per alcun tempo era rimasta silenziosa in Dante prima che venissero in soccorso Beatrice e forse le parole di san Paolo ai Romani: hora est iam nos de somno surgere , “la notte è inoltrata, il giorno si è avvicinato” (34). ”Ora, afferma Virgilio, occorre affrontare la salita del monte “ch’è principio e cagion di tutta gioia” (v.78), intraprendere il viaggio verso la beatitudine. Da rilevare la presenza delle parole-chiave afferenti al movimento, quello verso la salvezza e quello di fuga o di pericoloso ritorno nell’errore: “cammino, via, viaggio, giungere, salire, venire, seguire, uscire, fuggire, ritornare”. Rivolgendosi con atteggiamento umile al maestro, perché intervenga in suo favore, accompagnandolo lungo la pendice del monte fino alla cima, l’agens rivendica la validità del “lungo studio” (v.83), dell’impegno appassionato della ragione nella conoscenza dell’opera del grande saggio, così elevata per stile e contenuti morali. Ma il cammino da percorrere è più tormentato della via diretta al bene, impedita all’umanità dalle tre fiere e soprattutto dalla lupa. La strada che la guida intende seguire è quella teorizzata dai pensatori della Scolastica (35) . “A te convien tenere altro vïaggio”, sostiene Virgilio, e la dieresi sulla parola “vïaggio” ne sottolinea la difficoltà, “ond’io per lo tuo me’ penso e discerno/ che tu mi segui, e io sarò tua guida…” (vv. 112-113). Virgilio è la guida razionale, definita tale dai verbi “penso e discerno”; il maestro conduce il viandante attraverso l’inferno, dove l’agens constata gli esiti oltremondani del peccato e lo rifiuta; poi sulla montagna del purgatorio, luogo deputato alla penitenza e all’assoluzione da parte dell’angelo portiere , fino all’Eden, il giardino della felicità terrena. Per raggiungere il paradiso celeste però la ragione non basta, occorre la grazia e Beatrice sarà a questo scopo guida più “degna” di Virgilio: “con lei ti lascerò nel mio partire” (v.122). Nella progressione dei versi indicati si può rilevare come la ratio risulti sempre termine medio e come l’ordine conoscitivo elaborato dalla riflessione cristiana sia sotteso a tutta l’opera, costituendone uno degli elementi portanti. 

note

  1. If. III 18.
  2. Vita Nuova,  XXXV-XXXIX.
  3. Convivio,  Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete.
  4. Idem c.s..
  5.  If. I  89 e VII 3.
  6. If. II 76 , “O donna di virtù sola per cui/ l’umana spezie eccede ogne contento/ di quel ciel c’ha minor li cerchi sui”;  If. II 53.
  7. De Trinitate libri quindecim. Nei capitoli del libro XII  si può leggere: Distat tamen ab aeternorum contemplatione actio qua bene utimur temporalibus rebus, et illa sapientiae, haec scientiae deputatur… Verum Scripturarum sanctarum multiplicem copiam scrutatus, invenio scriptum esse in libro Iob, eodem sancto viro loquente: Ecce pietas est sapientia; abstinere autem a malis scientia est. In hac differentia intelligendum est ad contemplationem sapientiam, ad actionem scientiam pertinere.
  8. Sermo IV, De rebus theologicis, 18-19. Bonaventura distingue ... viam sapientiae, quae procedit secundum rationes aeternas, e ... viam scientiae, quae procedit secundum rationes creatas...  Et ideo videtur, quod inter philosophos datus sit Platoni sermo sapientiae, Aristoteli vero sermo scientiae. Ille enim principaliter aspiciebat ad superiora, hic vero principaliter ad inferiora. Uterque autem sermo, scilicet sapientiae et scientiae, per Spiritum sanctum datus est Augustino ...
  9. Amor che ne la mente mi ragiona,   vv. 48-54.
  10.  Isaia 7,9. La tradizione mistica vede alcuni grandissimi pensatori, Agostino, Anselmo di Aosta, Ugo da San Vittore, Bonaventura, Bernardo, che sostengono  il primato della fede sulla ragione e sono tutti referenza dell’Alighieri.
  11. Pd.  XXVI 16-18.
  12. Confess. 11, 9, 11: audiat te intus sermocinantem qui potest.
  13. Sal. 14,1.
  14. Gen. 22,14.
  15. If. I  18.
  16. Proslogion, Proemio.
  17. Sermo IV, cit., 19.
  18. Mt. 23, 8 : Unus est magister vester, Christus.
  19. Sermo IV, cit., 1.
  20. Sermo IV, cit., 16.
  21. Sermo IV, cit., 15.
  22. Itinerarium mentis in Deum, Prologus 4, nella traduzione di Gaudenzio Melani O.F.M., Città di Castello (PG), 1987.
  23. Purg. IV, 76-90. Al verso 88:  “Questa montagna è tale,/ che sempre al cominciar di sotto è grave;/e quant’om più va su, e men fa male”.
  24. Purg. XXVII, 142.
  25. Pd. canti XXIV, XXV, XXVI.
  26. If. II,73.
  27. Rom. 13,11-12.
  28. Tommaso, Summa theo. III, q.90, articoli 1, 2 e 3.
  29. Summa, III, q. 90, a.1 :  Et ideo, cum plures actus humani requirantur ad perfectionem poenitentiae, scilicet contritio, confessio et satisfactio, ut infra patebit, consequens est quod sacramentum poenitentiae habeat partes.
  30. Purg. IX


 Bibliografia

  • La Divina Commedia, a cura di H. Honnacker, M. Romanelli, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello, 2007. 
  • Auerbach E. - Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, 1964. 
  • Bloch M. - La visione religiosa del mondo nel Medievo, in La società feudale, Einaudi, Torino, 1949. 
  • Bondioni G. - Guida alla Divina Commedia, Ghisetti e Corvi editori, Milano, 1988. 
  • Di Salvo T. - Introduzione al X canto del Paradiso, Paradiso, Zanichelli, Firenze, 1989.
  •  Getto G. - Aspetti della poesia di Dante, Sansoni, Firenze, 1947. 
  • Gilson E. – La mistica speculativa di san Bernardo, in La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze, 1973. 
  • Gregory T. - L’ascesa dell’anima a Dio secondo il mistico Bonaventura, in Storia della filosofia, La filosofia medievale, Edizioni Piccin, Nuova Libraria, Padova, 1975. 
  • Singleton C.S. - Studi su Dante. I. Introduzione alla Divina alla Divina Commedia, Scalabrini, Napoli, 1961.

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Immagini a cura di Erica Dozza: G. Dorè , Dante e la lonza; Beatrice e Virgilio


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