È il 28 ottobre 1921, nella basilica di Aquileia sono allineate undici salme di soldati senza nome. Sono state prelevate da altrettanti campi di battaglia della prima guerra mondiale con le caratteristiche di essere sicuramente italiane, ma non identificabili, nemmeno per il grado o l’appartenenza a un reparto.
Una di esse deve essere trasportata a Roma, per essere seppellita nel sacello del Vittoriano e celebrare il 4 novembre, la Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate.
A compiere la scelta, in rappresentanza di tutte le madri italiane che hanno perso figli in guerra, è Maria Maddalena Blasizza, maritata Bergamas, di Gradisca d'Isonzo.
Il figlio Antonio, partito per la guerra non ha fatto più ritorno, morto sotto i colpi di mitraglia mentre era lanciato all'assalto contro le postazioni austro-ungariche sul monte Cimone; ufficialmente disperso.
Antonio Bergamas è uno dei duemila trentini giuliani istriani dalmati, italiani di lingua e di cuore, ma sudditi austroungarici, che disertavano dall’esercito austriaco per aggregarsi da volontari, sotto falso nome, alle truppe italiane e combattere gli austriaci.
Sapevano di essere destinati a morte certa o sul campo di battaglia o impiccati, come Guglielmo Oberdan, Cesare Battisti, Nazario Sauro.
Prima di partire per il fronte Antonio, che faceva il maestro comunale, il 27 giugno 1915, scrive questa lettera alla madre:
«Domani partirò per chissà dove, quasi certo per andare alla morte. Quando tu riceverai questa mia, io non sarò più. Forse tu non comprenderai questo, non potrai capire come non essendo io costretto sia andato a morire sui campi di battaglia.
Perdonami dell’immenso dolore ch’io ti reco e di quello ch’io reco al padre mio e a mia sorella, ma credilo mi riesce le mille volte più dolce il morire in faccia al mio paese natale, al mare nostro, per la patria mia naturale, che il morire laggiù nei campi ghiacciati della Galizia o in quelli sassosi della Serbia, per una patria che non era la mia e che io odiavo.
Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio. Se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio»
Maria accarezza ogni bara, piangendo e pregando.
Arriva alla decima bara ed improvvisamente si accascia a terra; si rialza in ginocchio urlando il nome del figlio, ANTONIO! Grida. Si getta sopra la bara, abbracciandola e vi posa il mazzo di fiori bianchi che aveva con sé.
Quel soldato della bara n. 10 diviene IL MILITE IGNOTO.
La bara è trasportata in treno a Roma per la sepoltura.
Il viaggio si compie a velocità moderatissima, il convoglio si ferma in molte stazioni e ovunque è un funerale di massa.
È l'eroe sconosciuto, di tutti.
Arrivato a Roma, il feretro viene esposto per due giorni nella basilica di Santa Maria degli Angeli, per poi essere portato al Vittoriano.
Questo accade in un periodo di gravi difficoltà economiche, corrono due anni terribili, quelli del “biennio rosso”.
L'Italia è uscita a pezzi dalla guerra e da due anni è anche in uno stato di guerra civile strisciante tra le sinistre e i reazionari, tra cui spicca il neonato partito fascista.
Tra il 1919 e il 1920, la classe operaia esplode con scioperi nelle fabbriche, dimostrazioni ed agitazioni a livelli impressionanti; protesta contro il taglio degli stipendi e le serrate, sogna di fare come in Russia.
Così i due motivi, le richieste economiche e la pressione rivoluzionaria, finiscono col mescolarsi e confondersi.
Le preoccupazioni della classe politica liberale dominante sono sostanzialmente due:
La seconda preoccupazione è particolarmente sentita anche dagli industriali e dai possidenti agricoli, che detengono gran parte delle ricchezze del paese delle quali temono l'esproprio.
Il 30 agosto 1920, a Milano, la serrata dell'Alfa Romeo scatena una forte reazione e 300 fabbriche vengono occupate dagli operai. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia sono occupate da mezzo milione di operai, in parte armati.
Preoccupati per una possibile rivoluzione proletaria, gli industriali e i latifondisti cominciano a stabilire rapporti di sostegno alle squadre fasciste e agli scioperi agrari nella Pianura Padana e all'occupazione delle fabbriche in molte città italiane il fascismo risponde con la violenza.
Antonio Gramsci avverte l’incapacità del Partito Socialista a gestire queste manifestazioni di autogoverno proletario e si rivolge al governo per fermare le agitazioni.
Fortunatamente Giovanni Giolitti interviene quando la situazione è ormai senza sbocchi, col pericolo incombente di guerra civile; impone alle parti una mediazione su aumenti salariali e orario di lavoro e così, alla fine di settembre, le occupazioni delle fabbriche cessano.
Il timore di una possibile rivoluzione spinge proprietari terrieri, industriali e ceto medio ad appoggiare il fascismo di Benito Mussolini, così come farà la classe politica liberale e lo stesso Giolitti nelle elezioni del 1921.
L’Italia è ormai di fronte ad un bivio, e sceglie la tragica strada del fascismo.
L'anno dopo Mussolini farà la sua marcia su Roma
Il ritorno del soldato morto cancella per un poco tutte quelle tensioni, la nazione è unita davanti a quella bara.
Il ritorno a casa del corpo del guerriero ucciso in battaglia per la difesa collettiva è celebrato ai piedi dei monumenti al Milite Ignoto sorti ovunque, nuovi altari per il culto dei morti per la patria, culto che mischia i caratteri sacri a quelli civili e nazionali e mette al centro delle liturgie pubbliche l'eroe sconosciuto, il soldato semplice e l'ufficiale, le portatrici carniche, la gente comune, le masse.
Con lui sono tornati tutti i 200 mila soldati morti e dispersi. Su quegli altari si onorano 561 mila caduti sui campi di battaglia tra il 1915 e il 1918.
Quel culto del sacrificio “supremo” di chi ha dato la vita “per Dio, la patria e la famiglia!” assume anche un chiaro significato di riaffermazione e difesa di quei valori messi in pericolo da forze avverse.
Retorica e valori che all’epoca rinfocolavano i nazionalismi, spingendo verso una stagione di dittature e nuove violenze.
Rinfocolavano un demone che si aggirava ancora nel cuore dell'Europa e che si sarebbe manifestato 25 anni dopo negli stessi luoghi, nella stessa tana, con la stessa violenza, portando ad una seconda guerra mondiale.
È verosimile che non ci sarà un altro grande conflitto convenzionale con eserciti schierati sul terreno, così come è verosimile che il modello di vita conosciuto fino ad oggi e consolidato potrà andare in crisi per scarsezza di risorse finanziarie, manovrate da “gnomi” nascosti in grattacieli di vetro e palazzi di governo, spesso al servizio di lobbies sempre meno nascoste, obbedienti a quel demone mai sazio.
Allora ci sarà bisogno di spirito di sacrificio; sarà necessario condividere l’idea di un bene comune da perseguire anche a scapito della propria individualità, come quei soldati che un secolo fa hanno sopportato condizioni estreme, fino ad affrontare la morte, pur sapendo che il loro contributo personale era poco più di una goccia in un mare in tempesta.
Una volta lasciata alle spalle tutta la vecchia retorica sul “degno figlio di una stirpe prode”, è proprio questo è il messaggio più sublime che viene dalla tomba del Milite Ignoto. Un patrimonio della memoria collettiva italiana, tassello importante per la costruzione di un apparato iconografico nazionale, ma anche omaggio al silenzioso anonimato del cittadino comune, contadino, operaio, impiegato, artigiano che sia, senza il quale anche lo Stato apparentemente più forte è destinato a cadere.
Francesco Corona
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