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Riflessioni sul sionismo: Stati Uniti, Europa & Israele

23 Febbraio 2022
Riflessioni sul sionismo: Stati Uniti, Europa & Israele
Durante l’adolescenza i miei genitori mi insegnarono che sionismo era sinonimo dell’idea di casa.Non più solo un'idea del Tanakh (Bibbia Ebraica) ma un luogo fisico reale che permetteva agli ebrei di sentirsi parte della famiglia delle nazioni.

Riflessioni sul sionismo: Stati Uniti, Europa & Israele *

Innanzitutto vorrei ringraziare Stanislao de Marsanich, Presidente dei Parchi Letterari, e la professoressa Teresina Ciliberti, direttrice del Museo Internazionale della Memoria di Ferramonti di Tarsia, per avermi invitato oggi in occasione della Giornata internazionale della Memoria e chiesto di parlare di un argomento che è vicino al mio cuore: il sionismo, quel movimento nato per la ricostituzione di una nazione ebraica nella terra d’Israele e che oggi si batte per lo sviluppo e la protezione dello Stato d’Israele.

 Durante gli anni dell’adolescenza i miei genitori mi insegnarono che sionismo era sinonimo dell’idea di casa. E che quella casa propugnata dal sionismo e rappresentata dallo Stato Ebraico non era più solo una idea del Tanakh (Bibbia Ebraica) ma un luogo fisico reale che permetteva agli ebrei di sentirsi parte della famiglia delle nazioni. Il sionismo aveva trasformato in definitiva la Sion di quel testo sacro in una realtà concreta. I miei genitori, erano entrambi giovani adulti quando, l'8 maggio 1948, fu fondato lo Stato di Israele.

 Anche se all'epoca vivevano tutte e due negli Stati Uniti, ricordavano di aver ascoltato alla radio da bambini gli agghiaccianti sermoni antisemiti di Padre Coughlin, durante i quali venivano letti passi dei Protocolli dei Savi di Sion. Quella retorica avrebbe lasciato un segno indelebile su di loro mentre guardavano gli adulti impallidire per la paura che la persecuzione antisemita trovasse radici anche negli Stati Uniti dopo averla subita in Europa. Mentre i cieli d'Europa si oscuravano, vedevano i loro genitori cercare freneticamente notizie dei loro cari e amici in Francia, Germania e Palestina prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale.

 Nonostante tutto, continuavano a considerare l’America la loro ‘terra promessa’, la terra delle opportunità, come lo è davvero poi stato per loro e per tanti immigrati di ogni origine. Ma poi fu fondato lo Stato di Israele, e quell’espressione: ‘terra promessa’, finì di essere un riferimento biblico per diventare invece un luogo fisico dove persone stavano facendo accadere cose straordinarie. E la famiglia di mia madre era sempre al corrente di tutto quello che accadeva in Eretz Israel, come d’altronde lo erano tanti ebrei in ogni parte del mondo. 

 Lo scrittore israeliano Amos Oz nel suo bellissimo libro Una storia d'amore e di tenebra riporta le parole di sua zia nella Polonia negli anni '20: "Fin dalla più tenera età i nostri pensieri erano rivolti alla Terra d'Israele. Sapevamo a memoria la situazione di ogni nuovo villaggio, di che cosa si coltivava a Beer Tuvia e i quanti abitanti c'erano a Zichron Yaakov, di chi aveva costruito la strada asfaltata da Tiberiade e Tsemach, e dei pionieri che avevano scalato il monte Gilboa. Sapevamo cosa mangiava e cosa indossava la gente lì".

 Come Oz, anche io sentivo parlare in famiglia di quel cugino che andava in Israele e lavorava in un Kibbutz, di un altro che presto si sarebbe sposato a Haifa, una parente all’ennesima gravidanza, un altro ancora che aveva appena iniziato il servizio militare.

 Ricordo me stessa nel 1978, a soli 4 anni, seduta sul divano a guardare in TV l’ex primo ministro israeliano - Golda Meir - parlare in videochiamata dalla sua casa di Gerusalemme con Barbara Streisand in occasione del 30° anniversario della nascita dello Stato di Israele. La Streisand cantava l’Hatikvah, l'inno nazionale d'Israele. Il sentire l’ebraico cantato fuori della sinagoga suscitò in me un fascino e un orgoglio straordinari. Imparai l’inno subito a memoria, sentendo fin da piccola un forte legame con Israele, anche grazie alle canzoni di Barbara. Sono cresciuta con l’ammirazione per un Paese che faceva crescere i frutti nel deserto, che contro ogni previsione era riuscito a sconfiggere i suoi vicini ostili nelle guerre difensive del 1967 e del 1973, e che come l’America credeva nella democrazia ed era disposto a difenderla ad ogni costo.

 Era inoltre un paese di figure affascinanti: Golda Meir, il primo ministro d'Israele dal 1968 al 1974, che trascorse parte della sua giovinezza nel mio Stato natale, il Wisconsin; Moshe Dayan, il grande capo militare con la benda all’occhio sinistro; Yitzhak Rabin, Primo ministro dal 1974 al 1977 e poi di nuovo dal 1992 fino alla sua tragica uccisione nel 1995, il quale cercò un accordo di pace con i palestinesi e strinse la mano del presidente dell'OLP Yasser Arafat sul prato della Casa Bianca sotto lo sguardo del presidente americano Bill Clinton nel 1993.

 Questo rappresentava Israele: il sogno di un popolo pieno di vita, con uno spirito combattivo ma sempre in cerca della pace. La sua esistenza ci rendeva orgogliosi di essere ebrei e di stare assieme. La legittimità del sionismo e dello stato di Israele che esso aveva propugnato non è rintracciabile solo negli eventi che hanno preceduto l'insediamento ebraico in Palestina durante il mandato britannico, né solamente nell'Olocausto o nel fatto che gli ebrei un tempo hanno abitato Gerusalemme e la Terra di Israele. La legittimità del sionismo discende dal fatto che quel sogno di una esistenza pacifica in Israele pervade di sé l’immaginario ebraico, ed è un tutt’uno con esso.

 L’”ebraicità” diventa una realtà perché è radicata in un popolo, in una terra e in una lingua. Non ho menzionato la religione. L’ho intenzionalmente omessa per tre importanti ragioni. In primo luogo, perché siamo spesso abituati a pensare - in Europa come altrove - agli ebrei solo in termini religiosi. Ma noi siamo molto di più, siamo un popolo con una cultura, una storia e una civiltà, e questa civiltà vede nella distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C. un momento di disintegrazione che va oltre la semplice questione religiosa.

 In secondo luogo, perché non è sorprendente che, dopo quasi due millenni di persecuzioni e di diaspora e dopo i fallimenti dei tentativi di emancipazione, avvenuti tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XX secolo, molti ebrei laici abbiano visto in una patria nazionale ebraica l’unica risposta al crescente antisemitismo in Europa. Tra essi Theodor Herzl, il fondatore del sionismo. Erano i tempi dell’”affare Dreyfus” in Francia e dei tanti pogrom antiebraici in tutto l'Impero russo.

 A differenza dell'Olocausto, queste ondate di violenza antisemita sono state in gran parte dimenticate dalla storia. Eppure, dal 1918 al 1921, più di 1.100 pogrom sono stati il teatro dell’uccisione di più di 100.000 ebrei in un'area ricompresa nell'attuale Ucraina. Tale violenza su larga scala portò giustamente a temere che milioni di vite ebraiche in tutta Europa fossero a rischio.

 Tra coloro che fecero queste terribili previsioni c'era lo scrittore francese Anatole France, i cui timori si concretizzarono meno di 20 anni più tardi. Terzo e più importante motivo: l’ebraicità dello stato di Israele è intesa dagli israeliani diversamente da come la intendono gli ebrei americani o europei. Quando gli israeliani dicono "ebreo", intendono popolo, nazione. Invece, per la maggior parte degli ebrei e dei non ebrei che vivono fuori da Israele, il termine “ebreo” si riferisce primariamente, se non esclusivamente, alla religione. Tuttavia, colgo l’occasione per ricordare che Israele rappresenta ancora di più. Rappresenta uno stato-nazione che si identifica anche, e non esclusivamente, in una religione nazionale. La quale può essere osservata o meno. E quando viene osservata, ciò può avvenire in modi ed intensità anche molto diverse tra di loro, come accade per i fedeli di tutte le altre religioni.

 L’idea del sionismo ha funzionato? La risposta è semplice: sì. La possibilità che un popolo disperso in circa 70 paesi potesse riunirsi in un minuscolo territorio privo di risorse e circondato da avversari e riuscisse a sopravvivere e a prosperare era infinitesimale. Inoltre, nonostante tutte le critiche che potremmo muovere contro Israele, contro la sua politica e la sua società, resta il fatto che è sempre stata una vera democrazia.

 Gli ebrei israeliani e gli arabi israeliani eleggono liberamente i propri rappresentanti, ed il paese ha un sistema giuridico moderno a garanzia del quale c'è una Corte suprema indipendente. Dalla scorsa estate, il nuovo governo è sostenuto dai membri dei partiti arabi; in Parlamento vi è persino la presenza di un partito arabo di ideologia islamista. Così, nei fatti, il presunto "stato dell'apartheid" è l’unico paese del Medio Oriente che rispetta i diritti delle minoranze.

 Ma allora Israele è un paese perfetto? No, come tutti gli altri non lo è. E’ affetto da un ampio divario di reddito, ha una classe media in erosione e una grave carenza di alloggi per i giovani. Inoltre, ha all’interno della propria società una popolazione ultraortodossa ed una popolazione araba che sono in rapida crescita e che per ragioni totalmente diverse rifiutano lo Stato ebraico laico e democratico. Inoltre, Israele deve sostenere dei costi molto elevati per la propria difesa, dovuta al fatto di essere circondato da nemici armati, a partire da Hezbollah in Libano fino ad Hamas in Gaza.

 Ci sono molte persone in tutto il mondo, ebrei compresi, che considerano lo stato ebraico in maniera negativa. Alcuni anni fa ho partecipato a un evento culturale a Washington DC a cui era presente l'allora ambasciatore israeliano negli Stati Uniti. Stavo parlando con l'ambasciatore quando una mia connazionale, ebrea anch’essa, si è unita alla nostra discussione. Dopo circa cinque minuti tra sorseggi di vino e piacevoli battute, lei puntò il dito verso l'ambasciatore ed esclamò: "lei mi piace, ma non mi piace tutto quello che fa il suo governo". Lui elargì un generoso sorriso prima di porle la seguente domanda: “Le piace tutto quello che fa il suo governo”? E lei: "No, ma il suo governo deve essere perfetto", e se ne andò infuriata.

 In fin dei conti, penso che un gran numero di ebrei in giro per il mondo preferiscano vedere Israele come un sogno millenario piuttosto che come una nazione reale. Lo Stato ebraico crea per loro un problema perché mette in discussione la loro percezione di Israele come di un'idea astratta e non come un paese reale abitato da cittadini con pregi e i difetti come gli altri popoli.

 Essere sionista oggi non significa più voler vivere in Israele o essere necessariamente d'accordo con tutto ciò che fa il suo governo, ma piuttosto vedere nello Stato d'Israele un elemento centrale della stessa identità ebraica. Nel 2022, essere sionista significa ciò che ha sempre significato, cioè difendere l'esistenza dello Stato d'Israele, aiutare gli ebrei perseguitati in tutto il mondo dove e quando ciò è necessario, mantenere un interesse costante per ciò che accade al popolo ebraico dentro e fuori Israele, e oggi più che mai aiutare Israele ad affrontare campagne denigratorie e ostili come quella del movimento “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” (BDS), che cercano di delegittimare lo Stato ebraico.

 Prima di concludere vorrei raccontare un altro fatto che si riferisce direttamente all'Olocausto. Durante il lockdown, nel maggio 2020, ho ascoltato il dottor Iddo Netanyahu, fratello minore dell'ex primo ministro Benjamin Netanyahu, in una conferenza online sull’antisemitismo tenutasi nell’anniversario dell'Indipendenza di Israele. Iddo Netanyahu ha criticato il fatto che ogni leader mondiale in visita in Israele vengasse portato come prima tappa a Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah a Gerusalemme. Pur riconoscendo Yad Vashem è un'istituzione fondamentale, ha detto: "Non è giusto che lo stato sovrano d'Israele porti ogni leader, come prima cosa, a Yad Vashem - forse sarebbe opportuno se fosse la terza o la quarta tappa - a vedere le immagini spettrali di Auschwitz. [...] Penserà che stiamo cercando pietà. Potrà anche provare pietà per il popolo ebraico, ma non è per questo che è venuto in Israele. Ciò che gli interessa, in qualità di rappresentante del suo Paese, è come può perseguire gli interessi del proprio Paese".

 Iddo Netanyahu ha proseguito: "Quando Herzl incontrava i leader in Europa e in Turchia, spiegava loro l'idea sionista e parlava di una cosa - gli interessi dei loro Paesi e imperi - perché era nel loro interesse sostenere il sionismo e concedere uno Stato agli ebrei. Non ha detto: ‘Guardate quanto soffrono gli ebrei, aiutateci’. Quando parlava di antisemitismo, era solo per avvertirli che l’antisemitismo avrebbe potuto spingere gli ebrei a unirsi a forze anarchiche e rivoluzionarie che avrebbero portare alla distruzione dei loro Paesi. E in questo aveva ragione. Dovremmo prendere l'esempio di Herzl e comportarci allo stesso modo". Credo che Netanyahu, che quest'anno compie 70 anni, abbia colto un sentimento che molti israeliani condividono. Mentre gli Israeliani ovviamente non sottovalutano l'importanza dell'Olocausto, sentono che occorre ricordarlo, ma non ricordarlo in modo passivo. E questo è il ruolo del sionismo oggi.

 Il premier israeliano Naftali Bennett ha ribadito esattamente questo poco prima della Giornata internazionale della Memoria dicendo: "Lo Stato di Israele non è nostro ‘grazie’ all'Olocausto, ma perché la Terra di Israele era, è ancora e rimarrà sempre la casa del popolo ebraico. Un Israele forte, sicuro, indipendente, prospero, vario, libero e unito" ha aggiunto, è necessario per "assicurare l'esistenza del popolo ebraico".

 Zakhor ve l’chaim, toda. [Al ricordo e alla vita, grazie]

Amy K. Rosenthal

Riproduzione riservata © Copyright I Parchi Letterari

*Intervento nell'ambito del Focus sul Sionismo in occasione de I Giorni della Memoria a Ferramonti di Tarsia,  Il lager, la speranza, la salvezza 26, 27, 28 gennaio 2022 

Immagini di Amy K. Rosenthal


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