Beato Egidio da Laurenzana: da: Santa Maria della Neve in Laurenzana di Rocco Maria Motta
(…) Fra Egidio è anche lui da annoverarsi tra
quegli uomini che veramente raggiunsero
l’essenzialità.
Non so se possa essersi trattato di un “idiota”,
com’ebbe ad esprimersi un giorno un suo
confratello; potrebbe più verosimilmente essere
stato un sogno fattosi forma o persona in un
contesto di spiritualità contadina.
Nel quattrocento lucano le forze ostili che
attraversavano la società erano le pestilenze, le
carestie e le grassazioni.
L’oblio dei grandi generava un desiderio di
grandezza in un diverso mondo di “pari”; la
voracità dei re la voglia di esser nudi in un
creato senza bisogni.
Questo fu il nostro Medio Evo, consolato da
quei muti maestri che tradussero nella loro vita
quel sogno.
Ho avuto spesso tra le mani il libro di P. Atanasio
Caruso: “In estasi tra gli uccelli”.
Il francescano dopo aver prodotto ogni umano
sforzo per strappare alle carte una “figura”
ormai completamente sottrattasi alla storia e
definitivamente consegnata al mondo dello
spirito, sembra scusarsi con il lettore accigliato
e deluso che non ha trovato tra quelle pagine i
segni materiali di una presenza fisica.
Eppure, sembra dire il francescano, i ciechi
videro, i muti parlarono, gli storpi
camminarono, la febbre cessò di divorare i
corpi... Come a dire: se mancano le parole, non
mancarono i fatti.
Gli storici del Beato Egidio furono i testimoni
incolti della gente comune che trovarono più
naturale riportare i fatti anziché registrare le parole per una istintiva avversione a queste e
per un più concreto amore per quelli.
Perché la gente comune prova rammarico di
fronte all’assenza dei fatti più di quanto possa
provar gioia di fronte alla presenza di parole.
Il biografo al contrario è in difficoltà di fronte ai
soli fatti e stranamente resta deluso dalla nuda
presenza di questi, più di quanto resti entusiasta
di fronte alla presenza di sole parole.
Berardino Di Bello nacque a Laurenzana nel
1443 ove morì il 10 gennaio del 1518.
Aveva indossato il saio francescano
relativamente giovane, quasi in concomitanza,
quindi, con la fondazione del convento di Santa
Maria della Neve, proseguendo tra quelle mura
un suo modello di vita che lo aveva già reso
noto nel circondano.
Tutto quanto si sa del personaggio è racchiuso
negli atti del processo per la sua beatificazione,
e non è poco, come qualcuno vorrebbe far
credere, visto l’elevato numero di testimonianze
sulla eccezionalità di quel passaggio.
I laurenzanesi avevano iniziato a venerarlo
come un santo dopo la sua esumazione dalla
fossa comune dei frati dove era stato rinvenuto
in uno stato di chiara mummificazione e, come
vuole la tradizione, in ginocchio rivolto in
direzione del Santissimo.
Non essendo stato né un capo popolo, né un
riformatore, né un intellettuale, la Laurenzana
del '500 non poteva che serbarne memoria
orale.
Oltre tutto, testimonianze scritte non ve ne sono
per alcuno né per alcunché, segno che a
scrivere non erano in molti e che quello che
poteva sopravvivere è finito nel nulla
cancellando, democraticamente, proprio tutto.
È nostra convinzione ch’egli, prima che un
francescano, sia stato un santo e che solo la
particolare congiuntura dell’apertura di un
convento a Laurenzana ne abbia fatto un frate
francescano.
Diversamente sarebbe rimasto uno dei tanti
santi extra-istituzionali e fors’anche fuori dalle
cronache dei secoli successivi, sconosciuto,
quindi, con buona pace anche di lui, che, come ci è parso di capire, non amava affatto la
notorietà ed i riconoscimenti.
E, secondo noi che lo studiamo da concittadini
e dopo un lasso di tempo di oltre cinque secoli
con mente laica sia pur credente, un frate “sui
generis”, espressione appena percepita del
francescanesimo (di cui riconosciamo di non
essere degli esperti provetti ed infallibili) del
'500, attraverso talune ripetute immagini più
che attraverso taluni comportamenti.
Dire quel che ci è parso aver capito di lui
dovrebbe servire a trasmettere quel che può
dire un “esterno”, cosa che allo stato attuale
manca e che non dà adito ad ulteriori
approfondimenti fuori da certo panegirismo di
maniera.
La nostra prima riflessione si collega ad una tesi
già anticipata in fase d’avvio del presente
lavoro: il passaggio sulle nostre terre di altri
fenomeni o modelli di religiosità.
Religiosità e spiritualità del Beato Egidio
provengono da molto lontano, hanno il sapore
e i colori delle terre che dai Santi Quaranta
salgono al Caperrino, e raccolgono, nel loro
cammino all’insù, odori di contadini, di
nomadismo e di frati itineranti, in un misto assai
evidente di forte amore, di intenso misticismo,
di connaturato anarchismo tipici delle nostre
terre.
È, in genere, un vezzo da “ripetitori” e da cultori
interni accostare a San Francesco ogni santo
francescano: se per certi versi il Nostro gli
somiglia è più perché tutti i santi si somigliano
tra di loro che per altro.
Berardino non conosce come Francesco di
Assisi una conversione clamorosa e
spettacolare, ignora completamente modelli di
vita borghesi, non conosce un prima né un
dopo nella sua vita: egli è di origine contadina e
vissuto nella seconda metà del ‘400 in una
Lucania abbondantemente e diffusamente
povera oltre che a lungo medievale; la sua
povertà è punto di partenza e di arrivo; la
religiosità, di cui disponeva, retaggio contadino
ed espressione di efficaci esempi lontani che a
Laurenzana hanno forse radici prefrancescane.
Bisogna dirlo: esce fuori dai canoni classici di
quel personaggio grandioso che fu il “poverello
di Assisi”.
C’è per lui una povertà di partenza e una
spiritualità congenita che guida a tutta prima la
mente ad asserire che santi si nasce.
La condizione di povero non è di per sé strada
aperta alla santità, come non è inibente alla
stessa la condizione di ricco. Perché la cosa
possa verificarsi devono associarsi a
qualcos’altro.
Ecco pertanto come la spiritualità congenita
non gli fa desiderare una condizione economica
diversa e la povertà di partenza lo include senza
problemi negli spazi “santificanti”, offerti nel suo
caso a lui dal francescanesimo per congiunture
storiche.
C’è anche da chiedersi, nel nostro caso, quanto
l’infusione in lui abbia avuto del divino e quanto,
invece, sia stata derivazione da contesto.
Certe presenze sul territorio non possono non
essere spiegate da altre presenze alle stesse
preesistenti, e nel caso del Beato Egidio da
Laurenzana non sarebbero, comunque,
sufficienti i pochi anni di presenza francescana
sul colle dì San Niccolò.
È proprio la frequentazione di una grotta che il
suo primo biografo tira in ballo a fare di lui un
fuori dal gregge. Chi poteva il Beato aver visto
dimorare lassù nelle grotte? O, se non lui, chi
poteva aver visto per lui e prima di lui?
Certamente quella montagna aveva conosciuto
altri precedenti passaggi costituendo quasi un
mondo a parte, staccato dal vecchio borgo
chiuso nella sua cinta muraria, un mondo
costituito da casolari sparsi tenuti uniti dalla
fede religiosa e da alti esempi di vita cristiana
solitaria che si annidavano nel seno del colle.
Il Beato Egidio sembra un incontro, più che una
sintesi, di tre culture: quella contadina, quella
eremitica, quella francescana.
Il convento fu il porto che accolse un’anima
bisognosa di sede, ma anche in grado di offrire
esempi di cristianesimo elevato, sempre
necessario nel turbinio dei tempi.
Egli vi giunse dopo essere stato forse un
cofondatore, visto come fu accolto dai frati di
Santa Maria della Neve (stando a quel che dice
il Capitolo) lusingati d’esser visitati da cotanto
esempio di santità vivente. (…)