Michele Parrella, nato a Laurenzana nel 1929 e
morto a Roma nel 1996, è certamente uno dei
grandi poeti che la Basilicata ha regalato alla
Storia.
Nel 1954 esordisce con Poesia e pietra di
Lucania, cui seguiranno Paisano (1958), La
Piramide di Pietrisco (1981) e la Piazza degli
Uomini (1997).
Ha realizzato vari Documentari sulla Basilicata e
non solo e ha collaborato con il Regista
Francesco Rosi nella realizzazione del Film
“Cristo si è fermato a Eboli” tratto dall’omonimo
romanzo di Carlo Levi.
Ancora una volta, anche qui, non viene in mente niente di meglio nel tracciare un profilo di Michele Parrella che ben restituisca ogni suo spessore e ogni sua ampiezza poetica, se non affidandoci a quanto scritto e sostenuto da amici, letterati e intellettuali che lo hanno frequentato e conosciuto e che, prima di altri, possono con le loro parole e le loro analisi restituirci la sua opera nella sua interezza e nella sua importanza.
Iniziamo, dunque, dal suo grande amico e estimatore Giuliano Ferrara, che, in un vero e proprio “gioiello stilistico e contenutistico”, nella sua prefazione al Volume La Piazza degli Uomini, parlava così di Parrella: (…) Michele Parrella è un poeta a vita o di diritto. La parola è diventata il suo laticlavio, una volta per tutte. Non conosco la data della sua elezione, e ignoro altre circostanze. Ma so che l’elezione c’è stata. Parrella una volta ha dettato questi versi:
Gli ubriachi pendono dal balcone
cogli occhi degli impiccati,
il vento li fa dondolare
sulle grida dei venditori.
Che gli ubriachi dondolino sulle grida dei
venditori, piuttosto che tra le loro grida, è un
dettaglio grammaticale decisivo.
La poesia di questo secolo vive di precisione, ha
un qualche opaco ma genetico rapporto con i
progressi della chirurgia, con i prodigi della
tecnica.
In questo è poesia classica: nasce nel tempo e
lo accompagna, rassegnata e demente, con il
suo rifiuto.
Ermetici, e simbolisti confezionano protesi per
gli occhi invalidi del lettore moderno.
Cercano di surrogare con arti in vetroresina le
funzioni decadute di un corpo di parole che non
funziona più.
Sopra le correnti oceaniche del trasporto lirico,
nell’aria appena conquistata, fabbricano
macchine adatte al volo in alta quota.
Infatti i loro versi volano più alti delle aquile e
sono sempre in debito d’ossigeno.
Il dondolio degli ubriachi di Parrella ha dunque
il suo posto destinato sopra le grida dei
venditori, in uno spazio che non ha niente di
eventuale o di generico, dentro una circostanza
simbolica che è molto diversa dall’emozione
lirica di un paesaggio.
Prima di quei versi, d’altra parte, la desolazione
mitica e sacrale di T. S. Eliot aveva
definitivamente confutato l’ipotesi che il mondo
del Novecento potesse sopportare di essere
guardato o cantato.
Il secolo ha scritto perché il mondo venisse letto
e decifrato per allusioni e simboli e vaghe,
labirintiche memorie. Da un certo punto in poi
nessuno ha avuto più voglia di solfeggiare il
dolore e di inneggiare alla felicità. Il pendolo
ubriaco di Parrella compie la sua oscillazione,
cogli occhi degli impiccati, sovrastando un
campo di tensione acustica, e dondola sulle
grida dei venditori: il dolore dei novecentisti è
un esperimento di fisica, non un sentimento
lirico.
Questo è il punto, quando si viene (e finalmente
ci si viene) a un poeta così superbamente
laureato, così dotto e concettoso, così facile e
lirico nell’ apparenza, ma per essenza dotato di
un amore malinconico e segreto per
quell’imbroglio inestricabile che è la bellezza.
Nei poeti a vita o di diritto, venerabili eppure
mai venerati abbastanza, c’è posto per molta
legna d’ulivo, come nei grandi camini di
campagna, e ogni ciocco è un genere a sé.
Ecco un caso esemplare di ermetismo giocoso,
sei versi eccellenti sospesi tra Cabala e poesia
contadina, pitagorismo meridionale e Tarocco
(a dimostrazione che non tutte le intelligenze
che si divertono debbono di necessità essere
leziose).
Uno monta la luna
due il bue
tre la figlia del Re
quattro il gatto
cinque raccogli il frumento
sei piedi incrociati.
Però la mescolanza dei generi è sempre in agguato. Sorprendente e scherzosa, nella scrittura di Michele Parrella, imprevedibile come il suo talento, si affaccia d’improvviso, facile facile, la trama di un lirismo assoluto, melodico, da ballata «lorquesque».
Aveva semi d’ulivo in testa
e noci fresche nell’inguine.
E dopo due versi a colore, di pura aria lucana
la pupattola di fichi la collana di sorbe
Arriva un ricordo italiano, ottocentesco, di Giacomo Leopardi e della sua luna spezzata. Ricordate quel frammento di luna che si stacca nel sogno notturno raccontato a Melisso, che cade nel giardino di casa e che era grande quanto una secchia, e di scintille vomitava una nebbia? Parrella lo ricorda in un verso all’apparenza buttato via, come tanti altri suoi: è caduta la notte in una brace.
Che cosa sia il cupo cupo, di cui si dice soltanto che è più triste del tuono, tuttora io non so, dopo tanti versi letti a spiegazione dell’inspiegabile. Il cupo cupo è un’infinita processione, un movimento liturgico, un andare alla croce a dire che si muova.
Oppure è rivolta, insurrezione, moto a luogo per scopi civili, una genuina ribellione, un andare coi coltelli a strappare la nebbia.
Ma forse è la naturale sudditanza di uomini e animali, la sottomissione alla forza degli elementi come grande e definitiva metafora del carattere punitivo del potere.
È, il cupo cupo, una sanzione e una condanna, è il fulmine sul dorso dell’asino.
Parrella non viene dal tragico, le sue poesie civili sono sempre d’amore, litanie capricciose e infedeli come la sua accesa passione per le donne. Ha però un senso molto forte e riposto della gloria politica, un contatto acutissimo con la temibile questione dell’ingovernabilità della terra. Al barone e al prete, l’anarchismo contadino reca in dono versi istituzionali (Per fare una Chiesa/ci vuole eresia) e offre un caposaldo linguistico del divino Sud, un paradigma della religiosità mediterranea:
Tu sai quanto costa alzare gli occhi
non è uno scherzo segnarsi la fronte.
Michele Parrella è un uomo di tavole imbandite con modestia, un commensale dal passo oraziano, uno che è sempre andato in visita alla vita per cercare un amico disperso in trattoria. Il nostro poeta si dice barbaro malinconico e rissoso, e invece incarna la estrema propaggine della civilizzazione, quando la povertà dei mezzi di sussistenza coincide con la pienezza dell’esistenza e ne reca testimonianza quotidiana.
Componendo certi suoi monconi di saggezza viene fuori che la miseria fa zoppicare i versi, ma non è da credergli. È vero, è nel vero Parrella quando dice di sé ho solo il cuore per fare a metà. Ma gli basta.
E ancora, lasciamoci cullare dalle bellissime parole che Lucio Tufano dedica al Poeta in un suo lungimirante affondo letterario intitolato “Michele Parrella, principe del Serrapotamo”:
(…) Pur non ignorando le importanti esperienze letterarie verificatesi negli anni Trenta, ricche di significati per la ricerca linguistica e di scoperte all’interno della civiltà, della società e dei suoi problemi, nel secondo dopoguerra la letteratura meridionale si inseriva nella storia del neorealismo caratterizzandosi come la parte più neoverista e neonaturalista, raccogliendo le diverse eredità e rivelando non poche ambizioni di quel clima: l’elegia meridionale, la nuova centralità della questione politica e culturale.
Si verificò una strana osmosi tra esigenze
ideologiche di tipo populista e educazione
letteraria gestita anche in chiave “decadentista”.
Si distinsero le sensibilità più autentiche, ricche
di estro, di senso critico e autocritico nei
confronti delle ideologie e dei luoghi comuni. Di
lì scaturì una schiera di scotellariani minori …
leviani, postscotellariani e postleviani … il
declino del neorealismo, non esaurì le tensioni
e quella carica ideale che hanno ancora per anni
successivamente animato e tenuto vivo lo
spirito della protesta.
Riflessione e letture di quella produzione poi,
indagini e studi hanno alfine stabilito un più
stretto rapporto tra letteratura e Basilicata come
territorio, tradizioni, metafore, condizione
urbana e di sviluppo, documenti di vita.
Michele Parrella che assieme a Scotellaro fu uno
dei veri dioscuri di Carlo Levi nella premessa alla
sua prima breve raccolta di versi “Poesia e pietra
di Lucania” scriveva: “La società del Sud, quella
che si è venuta caratterizzando attraverso la
letteratura come mondo meridionale, mi
appare profondamente in subbuglio, in
movimento.
La Lucania è una parte di questa società, ne
riproduce le essenziali strutture …” poesia
giovane ma terribilmente seria e dolorosa,
scrive poi Giuseppe Sibilla – sui venticinque annidi Parrella, sembra gravare il peso di una
condizione sociale e umana che si trascina da
secoli … “Un dolore antico e inesorabile, se non
contenesse come molla potente il senso della
ribellione, la partecipazione aspra e aperta
contro il lurido seme della retorica, nella lirica
“La Patria”.
Proprio quando Togliatti sentenziava che i poeti
non potessero essere “cicale” ma formiche e
Vittorini ribatteva come non dovessero neppure
suonare il piffero della rivoluzione, visto poi
come delle rivoluzioni approfittino sempre i
tiranni per insediare il loro fascismo, fatto di
strutture, codazzi, egotismi e ingordigie.
Ma chi sono questi poeti? Segnalatori di quanto
sarà la immane perdita della natura? Chi sono i
poeti?
I poeti sono strani tipi che vivono di una penna
o non vivono affatto; sono strani tipi che
fendono la nebbia a passi d’uccello e sotto ali di
canzoni e come la gente – la massa – feticcio
inguaribile del nostro tempo, li vede «creature
singhiozzanti e malinconiche».
E questi furono i “prodigio”, i direttori
d’orchestra che sanno dirigere prima di essere
nati alla fatica delle crome e delle biscrome.
Questi tesserono le poetiche del demiurgo per
una reminiscenza dell’infanzia regionale lucana,
il passaggio attraverso la galassia contadina.
Nostalgia positiva, laddove non fu nostalgia
negativa, ispirata a motivi di reazione o
restaurazione, bensì a qualcosa che ci è ormai
sfuggita, monito per noi che perdemmo il paese
“la nave che vuole partire”, l’universo paesano,
il ritratto di esso e del suo tempo.
«Paisano», la raccolta del 1957, è quindi la
coscienza che ci portiamo dentro, è una ripresa
… con gli occhi dell’oggi e con il “noi” del
gruppo, del vicinato, dei fratelli, degli amici, di
tutti coloro cui sta a cuore la liberazione di ogni
cosa. «La montagna di Tufo» e la «Piramide di
Pietrisco» sono l’ironia e la meridionalità, il
riconoscimento di tutti non come
omologazione, ma come identità.
Quell’odore di legno pregiato, quel rame, quell’autentica memoria del vino, quei metalli, quel sentore antiquario degli oggetti: cose, sentimenti, angoli, scorci che meritano di diventare tutti beni culturali: luoghi e simboli racchiusi nello scrignetto azzurro di «Paisano». Se al poeta del mito civile, autore di poesie di gesta e di oltremare, se al poeta-soldato fu dato il titolo di Principe di Montenevoso per aver cantato la gioia del mondo e essere rinato ogni mattina, per aver sfidato i nembi e i fati, sovvertito le comuni leggi del vivere e essersi proclamato re di tempeste e di uomini, aver teso alla conquista del cielo, invocato Icaro e la morte illustre, essersi rifugiato nel focolare domestico, aver osservato i pastori che pel tratturo scendono al mare, contemplato l’ulivo e la spiga, la pioggia nel pineto e il novilunio, si erge il Vittoriale sulle sponde del Garda, ci appare quasi giusto – e perché no – che per il poeta di Lucania, che ha raccontato le storie del guardiese e del sagrestano Perdiluna, che ha segnato i più larghi confini della Patria e ha visto come la pioggia cada sulla pelle dell’asino e la piena raduni i vivi e i morti, il cupo cupo sia più triste del tuono, i monti lucani cadano in pezzi, le stradine siano appese agli orti, e le facce navighino nei bicchieri tra i berci delle osterie, che si erga lo “Sconfittoriale” sulle sponde del Camastra. Si tratta di un nostro poeta che ci parla ancora della pupattola di fichi e della collana di sorbe, delle querce spaccate dal fulmine e che ha visto cadere nei letti vuoti del sole i galli, i fanciulli, il tuffo stridulo del falco e ci racconta come una foglia si sia attorcigliata alla candela.
È giusto che lo si onori anche del titolo di
“Principe di Serrapotamo”.
Ecco che la Basilicata, con esperienze diverse,
legate alle zone e alle varie formazioni, una
pluralità di voci registrate a seconda delle
condizioni di cultura assimilata – assume le
dimensioni di un ampio e articolato mosaico, i
cui tasselli appartengono alle voci poetiche, o
alle origini: Sinisgalli come presenza storica della Val d’Agri (Montemurro), Michele Parrella
per le contrade della Camastra (Laurenzana),
Scotellaro e Levi, presenze che influenzano il
Tricaricese e il Materano, Riviello per la città di
Potenza tra l’Ottocento e il Novecento.
Vi è una strategia finale propria del poeta, dopo
i mille tentativi di rivolta, dopo aver issato i
folgoranti stendardi del lirismo ideologico,
dopo aver sostato nelle piazze in fermento,
dopo aver pianto e invitato a piangere su l’Unità
per la morte del grande oppositore Palmiro
Togliatti, dopo gli inni a Satana, quella dello
ostentato compiacimento della Sconfitta, umile
oggetto travolto dal torrente dell’arroganza,
nonostante la precisa coscienza di essere di più.
Una strategia dell’autodistruzione come
estremo tentativo di libertà, una teoria della
“minima resistenza al potere”, che appare alla
“lucidità” l’apparente “stupidità” del proprio
comportamento, alla volontà di potenza e alla
organizzazione generale del potere il balbettio
sommesso dell’impotenza dichiarata, alla
macchinosità, alle sofisticate linee, alle stringate
logiche, alle conclusive e poco comprensibili
mediazioni, lottizzazioni … il semplice
chiacchierare.
E Michele – negli ultimi anni – non fece che
chiacchierare, chiacchierava per ore, disperato e
ironico, comico nel senso kafkiano, ma sempre
altamente poetico.
Ed il vagabondare di Michele fu, fin dalla notte
dei tempi, una caratteristica della fabulazione,
affine al “vagare” di tanti altri poeti, rimanendo
fuori dalle logiche contingenti. E approdava
sulle aride coste della provincia di origine con il
suo rifiuto del “moderno”, il suo cappello di
paglia a falde larghe, il foulard, l’abito
panamense e antiquato, il mantello, le scarpe
bianche, il bastone e il sigaro, i capelli allungati
sul collo e … gli occhi chiari di azzurro e di
innocenza … e non vi furono Penelopi a disfare
le loro tele, ma solo il numeroso esercito di
boriosi Proci, i Proci della poesia che, acquattati
da ogni parte, gli contendevano l’aria darespirare e gli contendono ancora il primato
della poesia.
Perciò lo “Sconfittoriale”: perché il poeta nacque
sconfitto, come tanti, perché la Lucania registrò
la sconfitta del Mezzogiorno e perché – come
dice Baudelaire – il poeta ha ali immense che gli
impediscono di camminare. Il poeta un “pitocco
non è già”, per un pubblico che non c’è.
E, in ultimo, ma non certo per importanza, ci fa piacere qui richiamare quanto riportato dal Quotidiano la Repubblica il 10 Marzo 1996 che in occasione della morte del poeta, avvenuta appena qualche giorno prima, nel fare un necrologio tirò fuori, invece, – a nostro avviso – un bell’inno alla vita di Michele Parrella; di quel pudico poeta del Sud:
(…) È morto venerdì a Roma il poeta Michele Parrella. Era nato nel ’29 in provincia di Potenza, a Laurenzana, uno di quei paesi che, nelle sue poesie, s’intravedono “piantati di traverso lungo i dirupi”: era un modo di ricordare le proprie radici. Le quali si ritrovano in tutta la sua produzione, da “Poesie e pietre di Lucania”, del ’54, alla “Piramide di pietrisco” (1981).
L’estremo Sud era la sua patria del cuore.
“Paesano” s’intitola un’altra raccolta del ’58, ma Parrella, che viveva da molti anni nella Capitale, aveva culturalmente poco del provinciale.
Lo si incontrava nella Roma storica, specie nelle sere d’estate: un panama sulla testa, in bocca un sigaro spento.
Era figlio di un medico con studio a Potenza.
Nutrito di buone letture, viveva da scapolo, nella sua ironia un po’ spaesata.
L’ ultimo libro di versi, “La piazza degli uomini”, è uscito alla fine del ’94 da Marsilio. Ha per temi l’amore, le fantasie del Sud, certi ricordi “civili”. Vi compaiono figure come Antonello Trombadori, Paolo Bufalini, Enrico Berlinguer.
Una poesia, intitolata “Nord e Sud”, è dedicata alla morte di Gabriele Cagliari, il dirigente industriale coinvolto in Tangentopoli e suicida in carcere.
Parrella descrive la gente che, a Milano, “urla e applaude – al passaggio di quel corpo – con la testa avvolta nella plastica”.
Intanto, annota, “nel mio villaggio sopravvive la pietà”.
Per lui il Settentrione era un richiamo intellettuale.
Aveva scritto su Civiltà delle macchine. In un articolo apparso nel ’56 sulla rivista Nord e Sud, si rievoca una visita a Bologna, dove “la cattedrale di San Petronio ha il colore di un forno di campagna, pare un grosso casolare abbrustolito nel riverbero dei grandi fuochi dell’età dei Comuni”.
Sempre su Nord e Sud era uscito poco prima il “reportage” d’una gita a Ivrea, compiuta da Parrella insieme a un suo corregionale.
I due giovani erano stati ricevuti nei più alti uffici della Olivetti. Gli avevano commissionato, per “Comunità”, un’inchiesta socioeconomica sulla Basilicata.
Tornati a Potenza, Parrella e l’amico vennero “riassorbiti nel clima, nei gesti, nei passi, nelle stanchezze del luogo”.
S’incontravano senza mettersi al lavoro. Finirono per sfuggirsi: quel mitico progetto olivettiano svanì.
I suoi autori “in pectore” si erano confinati nell’aria del Sud “come in una goffa e arrugginita armatura”.
Quel racconto s’intitola “Viaggio al Nord”.
È un gioiello in prosa.
Michele Zito