Non dimenticare. Noi siamo fatti della nostra memoria. Meno ricordiamo meno siamo: ce lo rammenta anche lo scrittore Carlos Ruiz Zafòn. Resti, quindi, viva la memoria di quell'alba del 18 ottobre del 1940 quando la motonave Camogli partì dalla base militare di Portolago, nell'isola di Lero, nelle Sporadi meridionali, nel mar Egeo, alla ricerca dei profughi del Pentcho. Era naufragato, tra Rodi e Creta, sugli scogli dell'isola Kamila-Nisi, piccola, rocciosa e deserta. Fu lì che finì di navigare il vecchio battello fluviale partito da Bratislava. Fu lì che Nino divenne eroe. Un eroe di pace in tempo di guerra. Un gentiluomo tra i Giusti. Di Nino diranno molti anni dopo le motivazioni dei riconoscimenti non cercati.
La Palestina era la destinazione di quel battello a ruota, nero, incerto e traballante, di forma inconsueta, inadeguato per quel viaggio. Uno scafo nato per trasportare carbone e bestiame. Furono più di cinquecento i passeggeri a salire sul Pentcho. 71 anni il più anziano e tre avevano meno di un anno di età. Si erano privati di tutte le cose preziose. Sfuggivano quegli uomini e quelle donne alla deportazione nei campi di sterminio. Discese il Danubio quel battello sospinto dalla corrente. Allontanato dalle sponde dalle fucilate dei popoli del fiume, rumeni, bulgari. Solcò le onde del mar Nero e giunse incredibilmente nel Mediterraneo. Si trovò così in zona di operazioni di guerra. Schivò ancora pericoli, siluri e mine. Ma si incagliò e fu sommerso dal mare in tempesta.
Fu sugli scogli di Kamila-Nisi, ad otto giorni dal naufragio, che affamati, stremati, disperati li trovarono il capitano Orlandi e i marinai del Camogli. Era il tempo del tormento, del martirio, della follia. Tutta la tristezza, l'angoscia del mondo si riflettevano negli occhi smarriti dei naufraghi. Non fu facile salvare gli ebrei del Pentcho.
Il mare era minato. Il mare era in burrasca. Fino al limite fisico, spossato, sfiancato, sfinito Nino portò in salvo, tra mine e vortici insidiosi, molti di quegli ebrei. La Palestina era loro negata. Vennero trasportati a Rodi e poi a Ferramonti di Tarsia e in altri campi di concentramento. I più sventurati di quel campo furono trasferiti ad Auschwitz e Buchenwald. Per qualche tempo restò sospeso il conflitto tra la Camogli e i tedeschi. Quasi una questione da regolare. L’epilogo arrivò, nell’ottobre del 1943, con il bombardamento e l’affondamento della nave.
Dei naufraghi del Pentcho Nino non seppe più nulla. Quei momenti non furono però cancellati. Quegli uomini, quelle donne non dimenticarono. Cercarono Nino con tenacia e lo ritrovarono dopo due decenni. Un giorno dell’estate del 1972 Miriam e Harry Reiter arrivarono in Italia da Haifa e bussarono alla porta della casa di Nino, in riva allo Stretto di Messina, per invitarlo nel loro nuovo antico paese, la Palestina ritrovata. I Reiter e i sopravvissuti del Pentcho non avevano dimenticato.
Fin qui, nel ricordo di un figlio, gli spizzichi di un evento che lui, Nino, persona schiva e riservata, fu “costretto” a narrare dopo quella visita improvvisa e quell’invito in Israele. Chissà se i luoghi, i tempi e i nomi che ho cercato di catturare di quel fuggevole racconto, e poi per alcuni decenni memorizzare e custodire, corrispondono a quelli reali. Quei giorni crudeli, quei momenti straordinari sono entrati nella storia. La bibliografia è vasta. Riviste e libri ne hanno esaltano il ricordo. A loro è affidato il flashback di quel frammento di un periodo tragico.
Lo raccontano così, nel loro libro Io desidero la pace (Guerrini editore), Andrea Sciarcon e Fabrizio Nurra; «È sera e la nave Camogli, condotta dal capitano Orlandi, fa rotta verso l’isola disabitata. Il recupero dei naufraghi non è cosa facile. Tra i marinai che generosamente, anche a rischio della loro stessa vita si prodigano per portare in salvo gli ebrei c’è un siciliano Nino Marchetti. Il bassifondo è disseminato di mine e salvare i naufraghi che non sanno nuotare e che sono terrorizzati dall’acqua è un’impresa rischiosa. Marchetti è un uomo coraggioso e buono. Si comincia dalle donne e dai bambini. Il distacco dai mariti è doloroso e l’operazione di salvataggio di tutti i naufraghi richiederà più di una settimana. Sulla nave Camogli sono messi assieme, lontani dall’equipaggio, ma Marchetti […] non intende sottostare agli ordini impartiti. Per lui non valgono le leggi razziste e la sua cabina diventa riparo per circa quindici ebrei, che nutre e riveste a proprie spese. Addirittura li seguirà quando saranno sbarcati a Rodi.[…]. Lì vivranno in tende allestite in un campo di calcio […]. A Rodi Marchetti, trovato dai militari tedeschi a portare acqua ad alcuni ebrei, sarà fatto bersaglio di maltrattamenti. I tedeschi, che non sono ancora padroni dell’isola, comunque sentono di dover intervenire nella questione ebraica. […] La vicenda di Nino Marchetti, uomo mite e schivo, grazie alle famiglie degli ebrei salvati, uscirà solo dopo anni dall’oblio. Nel 1972 sarà festeggiato dai superstiti del Pentcho e come tanti giusti ripeterà che il suo gesto non era nulla di eccezionale».
Comunque, gli arrivarono inaspettati molti elogi e riconoscimenti. Dal presidente dell’Unione delle Comunità israelitiche italiane, Sergio Piperno Boer: «a conoscenza di quanto Ella ha fatto, con grande spirito di abnegazione e mettendo in gioco ripetutamente la sua stessa vita […] a favore dei nostri correligionari […] le manifestiamo i nostri sentimenti di riconoscenza e di simpatia per tutte le sue benemerenze nei nostri confronti.»
E ancora, tra le tante, un’attestazione dalla Comunità di Roma e una medaglia d’argento dal comitato per la Celebrazione del centenario dell’emancipazione degli ebrei italiani. Nel 1980, il presidente Sandro Pertini gli concesse, per gli atti di “altruismo e coraggio”, l’onorificenza di commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica.
Ma la ricompensa più grande per Nino sono state, indubbiamente, le lettere di alcuni superstiti del Pentcho, tra queste molti provenivano dal campo di Ferramonti di Tarsia, che elogiavano il suo gesto e rendevano omaggio al nostro Paese. «Esiste ancora», gli scrissero, «tra la razza umana un popolo degno del suo passato: gli Italiani». E ancora: «In Italia in campo di concentramento abbiamo avuto tempo e occasione di studiare la lingua italiana e quello che ho imparato mi è rimasto in testa… io voglio bene alla lingua italiana».
Gli raccontarono anche di «una ragazza nata sulla nave diventata mamma di due bambine.» Frammenti di lettere che confermavano che loro «non l’avevano dimenticato neanche un momento». E alla sua scomparsa, quelli che ne hanno custodito il ricordo, lo salutarono così «la sua memoria rimarrà sempre come quella di rari uomini che rifiutandogli obblighi imposti, seguì invece il proprio sentimento di solidarietà verso gli ingiustamente perseguitati in tragiche circostanze. Contribuì a salvare vite mettendo a repentaglio la propria incolumità, in periodo di guerra nella Marina militare». Ricordi diretti e indiretti che, come direbbe lo scrittore John Banville, battono dentro di me come un secondo cuore. Per mai più dimenticare.
Giuseppe Marchetti Tricamo
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