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La coscienza circostante. L'alfabeto greco

16 Marzo 2022
La coscienza circostante. L'alfabeto greco
Se c’è una cosa che in questi due anni ho odiato più di ogni altra, più delle chiusure, più delle bare, più della paura, essa è proprio la distruzione della speranza. Non riesco a concepire la distruzione della speranza altrui da parte di qualcuno

3. L'ALFABETO GRECO *

Il coronavirus, con la sua pletora di varianti, ci ha insegnato l’alfabeto greco talmente bene che non lo scorderemo più. Soltanto a scuola non sono mai riuscito a fissarlo nella mente. Sarà che l’esperienza diretta del dolore rende le persone sempre più predisposte alla memoria delle cose. Comunque, ora che vediamo la luce, ora che dal 31 marzo il coronavirus non esisterà più, cosa ci rimane di questi due anni? Sicuramente un bonus psicologico insufficiente per guarire le turbe che la pandemia ha prodotto, ma forse anche qualcosa di buono. Questa piccola parentesi di assuefazione alla morte ci darà sicuramente una spinta verso la vita, ci insegnerà ad apprezzarla un po’ di più.

 Su un libro ho letto che le pandemie storiche che ci hanno preceduto, come quella del 1957, la prima ad essere affrontata dalla medicina moderna, non furono raccontate col clamore che ha suscito quella scatenata dal coronavirus a causa delle differenze culturali. Erano anni di rinascita, l’Europa aveva appena sperimentato il dolore della Seconda Guerra Mondiale, aveva dovuto contare, purtroppo, più di 50 milioni di morti. L’incertezza del domani, essendo la medicina non avanzata come lo è ora, era all’ordine del giorno e veniva accettata in quanto tale. L’assuefazione alla morte, allora dominante, aveva fatto in modo che le trenta mila vittime prodotte dalla febbre asiatica non necessitassero di particolari retoriche, di particolari narrazioni, di chi sa quale particolare compianto. Erano morti come tutte le altre, e forse, allora, valevano veramente poco. Il coronavirus di morti ne ha fatti un po’ di più, la diffusione che ha avuto è stata straordinaria, cambiando forma si è trasformato in uno dei virus più contagiosi di sempre. Fortunatamente la retorica dell’informazione, sebbene contribuendo anche a fare più confusione, ha dato il giusto peso alla vita e le misure contenitive ci hanno aiutato a limitare i danni. Ora che tutto sta per finire, però, vorrei un po’ tornare indietro. Non di due, non di dieci. Di almeno cinquanta. Sessanta, anche settant’anni. Mi piacerebbe rinascere negli anni ’30, all’epoca dei miei nonni. Sicuramente l’esperienza della guerra non mi sarebbe piaciuta, ma mi avrebbe reso capace di migliorare come persona, di guarire dall’ipocondria.

 L’assuefazione alla vita che oggi viviamo grazie alla tecnica ci ha reso molto più timorosi della morte, ci ha reso, mi ha reso incapace di accettarla, di viverla come un qualcosa che fa parte della vita. Da piccolo mi ricordo che ogni volta che scoccava la mezzanotte del primo gennaio iniziavo a piangere. L’idea di avere un anno in più non è mi è piaciuta, non mi ha mai particolarmente affascinato. Fosse stato per la mia personale linea del tempo non avrei mai sentito la necessità di finire la scuola o prendere la patente. Non erano desideri che rincorrevo. Non me ne fregava proprio niente. Non ho mai amato il futuro, non mi è mai piaciuto aspettarlo. Mi è sempre piaciuto il qui e ora. Seppur non sia mai stato in grado di viverlo a pieno. Di viverlo al meglio delle mie possibilità. Di viverlo al massimo dell’intensità.

 La luce in fondo a questi due anni maledetti mi sta insegnando a vivere ogni giorno con più gioia, è vero, ma a volte mi sento letteralmente sparire. Sento di non aver nulla da raccontare, se non piccole soddisfazioni lavorative, professionali e universitarie. Vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo, ma al tempo stesso mi sembra di svanire nella scia di tristezza che l’avvento del coronavirus ha creato. Il Covid mi ha ricordato, dopo che l’adolescenza – in parte - me ne aveva fatto dimenticare, che prima o poi bisogna morire. Non mi va proprio giù. Capisco perfettamente che leggere queste righe così noiose possa rappresentare il trionfo del nichilismo, ma obiettivamente raccontarlo a qualcuno - sperando di trovare qualcuno che provi la stessa sensazione – è per me l’unico modo per sentirmi meno solo, meno perso.

 L’alfabeto greco ci ha stravolto la vita. Ci ha ricordato che la morte non può essere un tabù. Ci ha insegnato a prendere coscienza che la vita è un bene da vivere più intensamente, ma io, purtroppo, non so ancora come si fa. Aspetto che qualcuno di voi, anime pie, me lo insegni, ora che incombe anche la guerra, come se tutto quello che è successo negli ultimi due anni non bastasse. È davvero assurdo che nel 2022 esista ancora la guerra, quella che facevamo finta non esistesse più solo perché era lontana da casa nostra. Ora che arriva in Europa, però, esiste, ecco che iniziamo a temerla, a sentirla vicina, a sentire che esiste, che suona, che spezza le vite e i sogni dei bambini. Sono tempi bui, sono tempi maledetti, sono tempi che sinceramente sono stufo di vivere. Capisco che la vita sia fatta di tante cose, di gioie e dolori, di vittorie e sconfitte, ma perché proprio ora tutto questo? Perché proprio così? Perché tutto insieme? Perché piove sempre sul bagnato?

 Qui da noi riaprono le discoteche, si ricomincia a ballare, a saltare, a cantare. A mille chilometri da noi, invece, i ragazzi il sabato sera vanno a fare la guerra, perché loro, in quel momento, si trovano nella parte sbagliata del mondo. Fino a che punto possiamo stare a guardare? Fino a che punto è giusto farlo di fronte alle immagini che ci arrivano? 

 Se c’è una cosa che in questi due anni ho odiato più di qualunque altro evento, più delle chiusure, più delle bare, più della paura, essa è proprio la distruzione della speranza. Non riesco a concepire la distruzione della speranza altrui da parte di qualcuno. Bombardare gli ospedali vuol dire distruggere la speranza di chi cerca di guarire. Privare le persone della possibilità di crederci fino in fondo è una cosa che mi fa raggelare il sangue. Crederci è il mio mantra. “Credici” il mio slogan. Quando oggi sono entrato in una copisteria ho visto una scritta blu su un foglio giallo. C’era scritto “Believe”. Mi sono incantato per venti minuti. Crederci. Credici. Mi ripetevo, ancora e ancora. Nella parte giusta del mondo, di questi tempi, è facile. Mi auguro con tutto il cuore di non dover mai affrontare una prova simile, di dover sperimentare – sulla mia pelle – quanto difficile sia credere in sé stessi, quanto complicato sia credere di potercela fare nel limbo sospeso tra la vita e la morte, nel tempo sospeso tra una esplosione e la successiva.

Di Alessandro Di Mattia

 *Leggi : La coscienza circostante . 1. Prefazione2. Per quanto ancora?

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