Basterebbe la scultura di Grita, della Galleria Pitti di Firenze, ad evocare il dramma della monaca di Monza, una delle figure letterarie più contraddittorie e affascinanti tra quelle descritte da Manzoni nel romanzo I Promessi Sposi.
A 450 anni dalla nascita di Marianna de Leyva (Gertrude manzoniana) costretta dal padre, conte di Monza, ad una monacazione forzata, l’opera dello scultore autodidatta Salvatore Grita, conduce ad una riflessione sul dramma di questa giovane donna, nata il 4 dicembre 1575 e morta a Milano nel 1650. Nel capitolo IX - X, Manzoni, che definisce Gertrude “sciagurata”, introduce il lettore nel dramma umano di questa giovane forzata al velo, da un padre/padrone che la costringe alla clausura nel monastero di Santa Margherita, dove prenderà il nome di Suor Virginia Maria. Dalla storia di Marianna De Leyva, discendente da una nobile famiglia di origini spagnole, Manzoni prende spunto per il personaggio di Gertrude, la monaca che le consorelle chiamavano La Signora.
Lo scrittore trovò traccia della vicenda di Marianna De Leyva in un’opera del Ripamonti e nel 1827, pubblicando il suo capolavoro, rese famosa la vicenda anche se la ridusse a soli due capitoli mentre nella prima versione intitolata Fermo e Lucia, la figura di Gertrude occupava ben sei capitoli. Manzoni introduce il dramma nel capitolo X così : "Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.”
Affascinato dal contrasto tra la vita dissoluta e il pentimento e la redenzione della monaca, lo scrittore ne fa un simbolo morale e ispirandosi alla realtà, crea un personaggio di incredibile spessore e verosimiglianza. Senza ripercorrere le vicende della monaca di Monza, note ai più, ricordiamo che dopo un processo, venne murata in una cella dove rimase quattordici anni. Il 18 ottobre 1608 il tribunale ecclesiastico di Milano emise questa sentenza: “Suor Virginia Maria De Leyva, monaca professa nel monastero di santa Margherita di Monza, nella diocesi di Milano, soggetto alla giurisdizione di questa Curia, fu realmente ed effettivamente, non solo per assai testimonianze, ma altresì per proprie confessioni, convinta di molti gravi, enormi, atrocissimi delitti, dei quali consta nel processo istituito contro di lei e le altre religiose sue complici; onde ella appare con ogni evidenza essere rea, colpevolissima, e per ogni titolo punibile: perciò la condanniamo alla pena, finché avrà vita chiusa e murata così di giorno come di notte, e sino al suo trapasso.”
Gli atti del processo sono stati secretati per lunghi anni e resi accessibili solo dal 1957; è probabile che Manzoni abbia però potuto consultarli negli anni 1835/40.
La scultura in gesso di Salvatore Grita (Caltagirone 1828 – Roma 1912) intitolata “Il voto contro natura”, venne realizzata verso il 1860/70 ed è conservata a Firenze, presso Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna. Raffigura una giovane monaca in avanzato stato di gravidanza, oppressa da possenti mura.
Grita, scultore autodidatta, formatosi in stretto contatto con l’ambiente del verismo napoletano, trapiantato a Firenze, entrò in contatto con Diego Martelli e con l’ambiente di Caffè Michelangelo, alternando l’attività di scultore a quella di critico d’arte sulle pagine del “Gazzettino delle arti del Disegno”; nella scultura in esame, mostra la volontà di denuncia sociale, esplicitata fin dalla dedica incisa sul basamento “Ai protettori e sostenitori del voto contro natura” che, in sintonia con l’atteggiamento anticlericale di Diego Martelli, esprimeva il proprio dissenso verso la castità imposta dalla chiesa alle suore o contro quel fenomeno delle murate vive di manzoniana memoria.
Grita realizza l’opera con uno stile scabro e privo di enfasi, puntando al coinvolgimento emotivo tramite la presentazione del dramma vissuto dalla giovane monaca, sopraffatta dalle incombenti mura e dal dolore. Le targhe apposte all’opera del Grita recano la scritta “Ruderi di San Vincenzo de’ Paoli”: si tratta probabilmente del complesso vincenziano di Borgo Vergini a Napoli.
L’opera viene ricordata dal critico Camillo Boito nel 1872 che ne fece una toccante descrizione evidenziandone il carattere drammatico: ”Una monaca che prossima a divenire madre, accosciatasi nell’angolo della cella si contorce tra il dolore e il rimorso”. La scultura denota la conoscenza da parte dell’artista dell’opera di Adriano Cecioni Donna gravida. A livello letterario, il tema delle monacazioni forzate, viene affrontato ad esempio, nel romanzo epistolare Storia di una capinera di Giovanni Verga, pubblicato nel 1871, dal filosofo e scrittore illuminista Denis Diderot nella sua opera “La religieuse”, che testimonia come tale condizione femminile persistesse nella Francia prossima alla rivoluzione. Nel 2019 la scrittrice Bruna K. Midleton, dedica alla vicenda delle forzate al velo del monastero di santa Margherita, un libro Murate vive. Marianna de Leyva e le monache di Monza, edito da Bonfirraro. Nel monastero di santa Margherita, dove le suore del romanzo erano recluse, accaddero fatti e misfatti con la complicità di suore e preti privi di scrupoli e con l’aggravante di un’autorità ecclesiastica che inflisse loro il calvario della tortura negando infine, il conforto di una possibile redenzione.
Alberta Piroci Branciaroli
Immagine di Alberta Piroci Branciaroli. La scultura in gesso della Galleria Pitti Firenze esposta in occasione della mostra realizzata nel 2022 al castello di Poppi in collaborazione con gli Uffizi Nel segno della vita. Donne e Madonne al tempo dell'attesa