Ho scoperto Grazia Deledda quando andavo ancora a scuola - dove peraltro non veniva studiata - leggendone l’opera completa, raccolta in tre grossi volumi che Mondadori aveva pubblicato nel 1950; facevano parte della biblioteca di mia nonna la quale, consacrata a quegli scritti, se li portava in villeggiatura nella casa di campagna.
Sembra che la Deledda amasse scrivere nelle prime ore del pomeriggio; per singolare assonanza, nel primo pomeriggio delle mie estati campestri io divoravo i suoi romanzi e le sue novelle sotto le gigantesche foglie delle paulonie che, come ombrelli, proteggevano il mio angolo di lettura. E sotto quelle foglie sono passate le Dame Pintor, Elias Portolu con il suo pallore da galeotto, la Madre del prete così nera e dolente e, via via, gli altri personaggi piegati ma non domati dal peso di una vita fatalmente drammatica, allo stesso modo in cui, benché piegate dal vento, resistono le querce secolari nell’Iglesiente.
Anche alcune novelle presentano una venatura drammatica senza tuttavia alterare la piacevolezza del racconto come nel caso de Il cinghialetto. E’ la natura aspra e selvaggia che muove la penna della Deledda, unita ad un’ispirazione lirica e autobiografica che – come sostiene Natalino Sapegno – la distoglie però dal Verismo.
La scrittrice ebbe critici discordi, ma tra chi la esaltò ci fu lo storico della letteratura e accademico italiano Francesco Flora: «Grazia Deledda consegnò ai suoi libri la memoria diretta e favolosa come l’infanzia, la vita isolana della nativa Sardegna, i sogni smisurati della solitudine di un’isola tra mare e cielo […]. La sua arte fu un’intensa virtù di paesaggio: anche gli uomini e le loro terribili passioni e colpe e i loro rimorsi e riscatti si iscrivono nella sostanza del paesaggio, come in una forma di religione».
La Deledda è la Sardegna, anche quando l’abbandona, come ha affermato qualcuno. Altri la ritennero vicina agli scrittori russi perché «capace di ritrarre la potenza trascinante del peccato come una crisi che libera dal loro profondo carcere tutte le forze dell’uomo» (Momigliano).
Il 10 dicembre 1927 a Grazia Maria Cosima Damiana Deledda venne conferito il premio Nobel per la letteratura 1926 «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale, e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».
L’ultima volta che andai in Sardegna scelsi la costa orientale per sottrarmi, inutilmente, al vento di maestrale. Nuoro non era lontana e quindi s’impose un reverente pellegrinaggio alla casa natale della scrittrice. Una casa di famiglia patriarcale, semplice ma comoda, i cui ambienti furono descritti nel romanzo più autobiografico (Cosima). La cucina era l’ambiente maggiormente vissuto, più tiepido di vita e di intimità. In quella grande stanza rimasi a lungo ad osservare tutti gli oggetti quasi a volervi ritrovare testimonianze, momenti di vita passata. Ce n’erano alcuni più raffinati accanto a quelli più rozzi come il tagliere da pastore di legno, quello con l’incavo in un angolo per il sale. Stavano quasi a significare il duplice aspetto di quella famiglia, un po’ borghese e un po’ paesana come la stessa Deledda la definiva.
La scrittrice lasciò la nativa Nuoro, isola nell’isola, per trasferirsi a Roma. Vi fece ritorno dopo la sua morte per riposare nella Chiesa della Solitudine.
Oggi la presenza di Grazia Deledda rinasce e vive nel Parco Letterario di Galtellì (la Galte di Canne al vento) a lei dedicato; non solo, ma sorvola il mondo e taglia le nuvole perché il suo volto è stampigliato sulla coda di un aereo delle Linee Norvegesi. Un onore quasi impensabile, sicuramente meritato, per una donna tanto schiva.
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Ascolta la stessa Grazia Deledda in un discorso successivo al conferimento del Nobel e il commentodello scrittore Mario Ciusa Romagna
Ecco ad un tratto la valle aprirsi e sulla cima a picco di una collina simile ad un enorme cumulo di ruderi, apparire le rovine del castello. L ' occhio stesso del passato guarda il panorama melanconico, roseo di sole nascente, la pianura ondulata con le macchie grigie delle sabbie e le macchie giallognole dei giuncheti, la vena verdastra del fiume, i paesetti bianchi col campanile in mezzo come il pistillo nel fiore.
Canne al vento