In una casetta di legno sui monti dell'Appennino, tanto tempo fa, viveva con i suoi genitori una bambina di nome Adelina, che amava ascoltare il canto degli uccelli. Crescendo, ben presto, aveva perfezionato la sua passione attraverso lo studio: aveva imparato a riconoscere le note del pentagramma, a cantare in coro e a suonare il flauto. Un mattino di tarda primavera, bussò alla sua finestra un bel cigno bianco. Fuori, tutt'intorno, rosseggiava l'alba e gli uccelli si rincorrevano felici sugli alberi, giocando a tenersi la mano per poi ritirarsi in disparte e subito dopo ritrovarsi nuovamente, come in un festoso girotondo di bambini. Adelina invitò il cigno a entrare, ma l'ospite inatteso le fece cenno di seguirlo: aveva un segreto da mostrarle. S'incamminarono sul sentiero bagnato dalla rugiada, inerpicandosi tra spuntoni di roccia scivolosa, all'ombra dei grandi abeti dall'inebriante odore di resina, bianchi, scintillanti al sole ormai alto nel cielo. Dopo mezza giornata di cammino, i due arrivarono sulle rive di un lago antico dove - al tempo in cui gli dei abitavano tra gli uomini - venivano a bagnarsi Apollo, protettore della musica, e Afrodite, dea dell'amore. In quel luogo si erano spinte anche le baccanti, sacerdotesse sacre a Dioniso che, nella notte buia, ebbre di vino, giravano di paese in paese ballando e cantando le lodi alla madre terra.
Ma non era questo il segreto del cigno bianco. C'era dell'altro. Si nascondeva nell'albero più bello che - unico, diverso da tutti gli altri - si ergeva solitario nell'angolo più profondo della foresta. Era un cipresso da cui cadevano antiche lacrime d'amore. E triste era la storia incisa sulla corteccia di quell'albero. Una storia che si può raccontare soltanto a chi ama la musica con una passione sconfinata. Su quell'albero era narrata la storia di un giovinetto bello e leggiadro di nome Orfeo, figlio del dio Apollo e di Clio, la musa della memoria e del ricordo. Avuta in dono dal padre una cetra, il piccolo Orfeo si era messo subito all'opera, grazie anche all'arte del canto che apprese dalle Muse. Le sue melodie erano così struggenti che chiunque le ascoltasse ne veniva conquistato. Gli uccelli smettevano di cinguettare sugli alberi e lo seguivano come frati cappuccini in processione; l'acqua dei ruscelli cessava di scorrere; i fiumi smettevano il loro fragore; le belve feroci uscivano mansuete dalle loro tane; le pietre accorrevano ad ascoltarlo e persino gli uomini smettevano di farsi la guerra. Un giorno il suo canto giunse alle orecchie di una bellissima fanciulla di nome Euridice, che immediatamente fu conquistata da quella melodia che rasserenava i cuori di ogni vivente. Anche il cantore, colpito dalla sua grazia, s'innamorò perdutamente della bella Euridice, il cui nome in greco antico significa "persona che rispetta la giustizia".
Venne il giorno delle nozze, che si celebrarono in un bosco della Tracia. Ma durante la festa si verificò uno strano fenomeno atmosferico: una densa colonna di fumo nero oscurò la luce del sole. Nessuno tra gli invitati diede peso all'accaduto, neppure l'ignara Euridice, che continuò spensierata nella sua danza. Soltanto Orfeo - abituato a interpretare i segni che i Celesti inviano ai mortali - vi colse un triste presagio. E, infatti, non trascorse molto tempo che Euridice fu vista accasciarsi sull'erba, morta, a causa del morso di un serpente, che la sfortunata aveva inavvertitamente calpestato mentre danzava. Accorse Orfeo a soccorrerla, il cuore affranto dal dolore. Cercò di rianimarla con il suono della sua cetra, ma non vi riuscì. Nulla, infatti, poteva la musica contro un'azione che, sebbene involontaria, si era rivelata tuttavia ingiusta: aveva infranto l'armonia che deve regnare tra tutti gli esseri della natura: anche tra una serpe e una giovane sposa. Sconsolato, Orfeo - il cui nome significa "orfano" - si ritrovò solo al mondo. Troppo presto la dolce Euridice era venuta a mancargli. Per tre giorni il cantore girovagò tra i boschi, senza dormire né mangiare, avendo come unica compagna la cetra. Al quarto, cantò la sua pena a un cerbiatto, che lo condusse fino alla fine del mondo, dove lo lasciò solo e dubbioso sul da farsi.
Guardandosi intorno, Orfeo notò sotto i cespugli in fiore una profonda cavità nel terreno: era l'ingresso di una caverna. Decise di entrarvi, ma prima dovette placare con la sua musica la resistenza dell'orrido cane a tre teste che era di guardia. S'incamminò, poi, con decisione per uno stretto sentiero, mosso dal desiderio di scoprire che cosa si celasse in quel tetro luogo sotterraneo. Il buio gli impediva la vista, ma quando girò l'angolo riuscì a scorgere in lontananza due punti luminosi. Si fece coraggio, tanto forte era la sua brama di conoscenza. Ben presto capì che erano gli occhi di un vecchio dalla barba bianca che se ne stava seduto sulla barca che galleggiava sulle torbide acque di un fiume. Erano gli occhi, rossi come carboni roventi, di Caronte, il nocchiero che traghettava i morti nell'Ade, dove regnava Plutone con la moglie Proserpina. Quando Orfeo si accostò alla barca, il vecchio gli sbarrò il passo con un lungo e nodoso bastone e gli intimò di tornarsene nel mondo di sopra. Il fiume Acheronte, dove il cantore era giunto, infatti, segnava il confine tra il mondo dei viventi e quello dei morti. Allora il giovane suonò una magica melodia che commosse il barcaiolo, il quale lo invitò a salire, pregandolo di non smettere di allietarlo con la sua cetra. Quando furono giunti a destinazione, il vecchio gli chiese il motivo del suo viaggio agli Inferi.
"Desidero ardentemente riprendermi la mia dolce Euridice", rispose il cantore, che si era reso conto di trovarsi nell’oltretomba.
"Impossibile!", urlò il vecchio, che poi aggiunse: "Devono trascorrere mille anni prima che le anime dei morti possano far ritorno sulla terra".
Dopo aver percorso un tortuoso sentiero a forma di labirinto, Orfeo arrivò nella sala del trono, la più profonda e tetra che si possa immaginare. Al centro era seduta Proserpina, la regina del Tartaro, che il dio Plutone aveva rapita giovinetta per condurla nel suo regno. Vestiva un abito nero, aveva il capo nascosto sotto un velo anch'esso nero, la sua mano destra indicava la sagoma di un'ombra, forse una giovane donna, 'la mia Euridice?" - immaginò Orfeo. Plutone le sedeva accanto, il busto coperto di una tunica color viola, le gambe accavallate e le braccia intrecciate a reggere un lungo scettro. Senza indugio il giovane poeta cantò la sua preghiera, rivolgendosi direttamente a Proserpina, la triste regina di quel regno mille volte più vasto della terra.
"Sono venuto a riprendermi mia moglie, che è stata avvelenata da un serpente ed è morta nel fiore degli anni. Una sorte ingiusta anche per voi che abitate in questo regno dell'Oltre: non è vero? Se è così, vi prego in nome di Amore, che ancora vi congiunge a vostro marito Plutone in questo regno di terribile silenzio, riavvolgete il filo del destino di Euridice, permettete a me di riportarla alla luce".
Così disse Orfeo, accompagnando la sua preghiera con la più struggente melodia che fosse mai uscita dalle sue labbra. Proserpina si tolse il velo e mostrò il suo viso rigato da due gocce di lacrime, forse ricordando la sua sorte di giovinetta tolta prematuramente al mondo dei vivi. Poi, volgendosi verso Plutone, fece cenno di sì con il capo. Plutone non poté contraddire la volontà della moglie e perciò emise una sentenza che mai aveva risuonato in quel buio regno: "Il tuo canto, Orfeo, ha impietosito la regina. Tu condurrai Euridice nel mondo dei vivi, ma a una condizione: Non dovrai guardarla fino a che non sarete fuori dal mio regno, altrimenti perderai per sempre la tua sposa".
Una sagoma di donna coperta da un velo si sollevò dal buio e seguì il cantore, che si era avviato verso l'uscita di quel regno privo di musica. Nel silenzio si sentiva solo il fruscio dei suoi passi. La barca di Caronte e il suo mitico fiume erano ormai alle loro spalle, e sulle foglie degli alberi si vedeva già il riflesso del sole, quando un dubbio assalì Orfeo, proprio un istante prima di attraversare il confine tra i due regni.
"E se Proserpina mi ha ingannato e l'ombra che mi segue non è Euridice? Voglio sapere la verità ad ogni costo. Come si può amare senza conoscere la persona amata?", si chiese il poeta-filosofo. E il dubbio, preludio di giusta conoscenza, non paralizzò il cantore di Apollo, ma l’incitò a compiere un atto di coraggio: si voltò indietro e con la mano destra sfilò il velo dal capo della compagna. In quell'attimo Euridice scomparve alla sua vista, risucchiata nel regno dei morti dalla terribile legge del Destino, che l'ardore per la conoscenza di Orfeo aveva violato. Ancora una volta orfano, il giovane varcò la soglia e si trovò solo e sconsolato nel bosco verdeggiante. Dopo aver vagabondato per un tempo imprecisato che gli parve un'eternità, si unì a una processione di baccanti che seguivano un personaggio misterioso dal corpo di uomo e la testa di capro e con loro giunse a un lago antico. Si rispecchiò nelle sue limpide acque, ma non riconobbe la propria immagine, perché nel frattempo era morto anche lui ed era sceso all'Ade. Dopo mille anni, il dio l’aveva condotto, insieme alle altre anime della medesima età, in una grande pianura dove ognuno doveva scegliere liberamente in quale corpo desiderasse incarnarsi per tornare a vivere nel mondo. Tutti facevano a gara per prendersi i destini giudicati migliori: chi volle essere un tiranno per comandare sui cittadini, chi un uomo d’affari per fare tanti soldi, chi un guerriero, e così via. Scelse anche Ulisse il suo destino, ma conscio dei grandi tormenti della guerra, preferì divenire un contadino per godersi la tranquillità della vita dei campi.
Quando arrivò il turno di Orfeo scelse la sorte del cigno, un bel un cigno canterino per rendere immortale, con la musica, la sua Euridice. Da quel giorno, il cipresso su cui era incisa la storia di Orfeo ed Euridice divenne il rifugio del cigno bianco. E lo specchio d’acqua in cui il cigno si era guardato fu detto “lago degli idoli”, per le statuine votive lasciate dai pellegrini in onore dell’antico cantore.
E la bambina della favola, la bella Adelina, quando si svegliò dal lungo sogno che aveva fatto, promise a se stessa d’innalzare, una volta cresciuta, un tempio alla musica proprio in quel magico luogo. Questa è la vera storia dell’origine della nobile “Filarmonica del prato-vecchio”.
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Foto di copertina Il grande mosaico con “Orfeo che incanta le fiere”, oggi conservato al Museo Archeologico “A. Salinas” di Palermo