La lettura e l’analisi di alcune novelle della
Perodi che rimandano a Dante e al suo
capolavoro, rappresentano un’occasione per
gli studenti che, attraverso questo
valido strumento didattico-formativo,
possono colmare quella “sfasatura inconciliabile tra sapere colto e
popolare, la cui collaborazione è perno della poetica perodiana”. La
pubblicazione non solo valorizza un patrimonio folcloristico popolare che si
perde nella notte dei tempi ma facendo immergere i lettori in un appassionante
immaginario gotico e noir,
restituisce il gusto incantato della tradizione orale. I giovani studenti
vengono così investiti di un importante ruolo, quello di ambasciatori e
divulgatori nonché tutori della cultura propria dei luoghi di loro
appartenenza, nel rispetto dell’articolo 9 della Costituzione Italiana che li
vuole cittadini attivi e consapevoli. L’articolo 9 infatti così recita: ”La
Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione.” L’inclusione di questo articolo tra i principi fondamentali
della Costituzione, consente di definire quella italiana una “Costituzione
culturale” che risulta essere un importante strumento di emancipazione
specialmente per i più giovani; uno strumento universalmente valido per
contrastare imposizioni illogiche e arbitrarie. Emblematiche risultano, a
questo proposito, le parole pronunciate da Concetto Marchesi, durante i lavori
della Costituente: ”Bisogna diffondere il libro sotto qualunque forma, non importa se
catechismo o libro di novelle. Bisogna educare il popolo e l’alfabeto è lo
strumento fondamentale non solo agli effetti dell’evoluzione spirituale e
politica della gente ma anche nei riguardi della produzione economica del
Paese”.
Nel settecentesimo anniversario della morte di
Dante, il Comune di Bibbiena con il sostegno dell’Uniel (Università dell’Età
Libera) e il patrocinio del Parco Letterario
Emma Perodi e Foreste Casentinesi
e dei Parchi Letterari, fa dono di questa pubblicazione agli studenti delle
classi seconde degli Istituti Scolastici Secondari di Primo Grado di Bibbiena e
Soci, con l’obiettivo di contribuire, in
maniera concreta, alle celebrazioni dantesche, attraverso la
valorizzazione del Casentino, vallata
che con i suoi panorami, le sue storie, leggende e tradizioni, con i suoi
profumi, sapori e colori, è stata fonte d’ispirazione per Dante ed Emma Perodi
che l’hanno resa nota a livello internazionale. Un dono per i più giovani
affinchè diventino custodi di quel sapere e di quella identità culturale che
risulta indispensabile contributo alla loro educazione, alla loro crescita,
alla loro formazione. E poiché il dono ha una
sua forza vitale che gli dà il potere di stabilire un legame con l’altro/altri,
la forza magica insita nel dono si farà veicolo, tramite la lettura, di quel
potere sovrannaturale e magico di cui si trova traccia nelle fiabe. Concludiamo
citando alcuni versi danteschi per affermare che questo lavoro è adatto
ad ogni tipologia di pubblico che abbia sete di conoscenza: “Considerate
la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per
seguir virtute e conoscenza." (Dante,
Commedia, Inferno, canto XXVI,vv.118-120)
Con Emma e Dante in Casentino
Secondo Attilio Brilli, la presenza di Dante, nella
prima valle dell’Arno, è tale, che il Poeta può assurgere a simbolo del Genius Loci del Casentino: concetto
questo che emerge chiaramente sia nella Commedia
sia nel capolavoro di Emma Perodi.
In linea con la cifra dominante della fruizione
dantesca, tipica dell’Ottocento, la scrittrice toscana, nell’elaborazione delle
sue novelle, attinge alla Divina Commedia rievocando sia
personaggi ed episodi danteschi, sia rielaborando le vicende personali del suo
autore. I rimandi a Dante e alla Commedia
sono più o meno espliciti ed emergono nelle novelle così come nella storia
collaterale a puntate della famiglia Marcucci, cui Emma dedica la cornice del
suo capolavoro: Le novelle della nonna. Fiabe fantastiche.
Che tra le fonti d’ispirazione di Emma Perodi, oltre
alla letteratura religiosa ed eroica, ci fosse la Divina Commedia, è cosa nota. Illuminante
in questo senso risulta il saggio di Franco Cardini, Le
forme del magico nelle Novelle della nonna (Atti del Convegno,
Poppi,1993) nel quale lo storico riconosce ad Emma Perodi una discreta cultura
dantesca che la scrittrice utilizzerebbe miscelandola sapientemente con la
fantasia. Emblematico del metodo citazionistico della scrittrice toscana,
risulterebbe il susseguirsi di reminiscenze dantesche tra le quali ad esempio
la figura della fata nella novella L’incantatrice, che nella sua
laidezza, ricorda l’antica strega apparsa in sogno a Dante nell’XIX canto
(vv.1-33) del Purgatorio: “Io son,
cantava, io son dolce serena che’ marinai in mezzo mar dismago; tanto son di
piacere a sentir piena!"
L’esempio più
calzante,a tal proposito, risulta sicuramente la novella Adamo il falsario nella
quale la scrittrice toscana riadatta il
canto XXX dell’Inferno, che può essere visto come archetipo del genere horror. Tuttavia sono anche alcune
vicende, forse meno note, della biografia del Sommo Poeta, ad ispirare la
scrittrice per alcune sue narrazioni, nelle quali, miscelando storia e
fantasia, fa riferimento anche alcune questioni spesso non ancora risolte. A
tal proposito è sicuramente da menzionare la novella Il nascondiglio del Diavolo,
nella quale la scrittrice tesse una trama straordinaria per affrontare, con
meticolosa precisione e fervida fantasia, il mistero della genesi della Commedia, argomento che ancor oggi
appassiona gli studiosi di Dante, non ancora giunti ad una conclusione unanime:
gli esperti infatti ritengono che gli originali primi
sette canti del poema siano andati perduti e non ancora ritrovati.
Ad una vicenda personale
del Sommo Poeta, rimanda la novella L’Ombra del sire di Narbona che Emma
dedica alla battaglia di Campaldino dell’11 giugno 1289, anche se il
riferimento a Dante, giovane feditore a cavallo in quel cruento scontro tra
guelfi e ghibellini, nella piana sottostante il castello di Poppi, non è
esplicito. Evidente risulta invece il tema della sorte ultraterrena dei morti
insepolti che Emma affronta attraverso il personaggio del sire di Narbona e che
Dante tratta nel V canto del Purgatorio dove narra ed immagina il mistero della
morte e della salvezza in extremis di
Bonconte da Montefeltro, alla confluenza dell’Archiano con l’Arno. Riferimenti
a Dante e alla Divina Commedia
emergono potenti, come già accennato, nella cornice del capolavoro perodiano,
là dove Emma intreccia con le novelle, le vicende dei
personaggi della famiglia dei mezzadri Marcucci, che vivono in un podere di
Farneta, nei pressi di Soci. Significative, a tal proposito, risultano alcune
osservazioni di nonna Regina o di Vezzosa, la fidanzata di Cecco, che dopo aver
ascoltato attentamente la novella La fidanzata dello scheletro osserva:
“ma quell’Amabile, sentite mamma, è vero
che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda credo, non avrebbe
saputo inventarla neppur Dante che ha scritto l’Inferno”. E che ne sai tu di Dante? – le domandò Cecco.
Poco o nulla …. A Rassina c’era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei
Serpenti e non so più quali altri
… Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in
Casentino a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne palazzi de’ Guidi e qui aveva
scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevano messo al
bando e lui, sdegnato se n’era venuto in questi poggi a sfogare il suo
risentimento. – Non sai cosa è avvenuto
di quella cugina di tuo padre che sapeva a mente i canti di Dante?- domandò la
Regina alla sua futura nuora. Ho sentito dire che era morta – rispose la
ragazza. – Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatta una tappa al
manicomio. La povera Rosa s’era tanto empita la testa di quei canti, della
descrizione delle pene dei dannati che si figurava di esser lei nell’inferno
circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi Vezzosa, certi libri
non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere,
s’ammattisce perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo.”
Tra i canti più noti, tramandati oralmente, è da
annoverare quello del conte Ugolino della Gherardesca, padre di Novella
Gherardesca, che dopo essere andata in sposa al conte Guido Novello Guidi del
ramo di Battifolle, viveva nel castello di Poppi, dove Dante fu ospitato e dove
potè raccogliere il racconto dell’orribile morte del conte e dei tre figli,
dalla contessa Novella:
“Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
…..
Poscia che fummo al quarto dì venuti
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo:” Padre mio, chè non m’aiuti?
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘i sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, potè ‘l digiuno.”
(Inferno, Canto XXXIII, vv. 13-15; vv. 67-75)
Il canto dei serpenti, cui fa riferimento Vezzosa, è
altro canto che veniva imparato a memoria e rimanda all’VIII cerchio e alla VII
bolgia infernale dove sono condannati i ladri che corrono nudi e spaventati
senza trovar modo di difendersi dagli attacchi dei serpi; qui Dante incontra il
pistoiese Vanni Fucci detto Bestia, ladrone e assassino che si era macchiato di
orribili peccati tra i quali quello di aver rubato “i belli arredi” della
cappella di San Jacopo nel duomo di Pistoia:
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose:”Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci ,
bestia, e Pistoia mi fu degna tana,”
(Inferno, Canto XXIV, vv. 121-126)
Ma ciò che risulta di grande interesse è sicuramente l’osservazione sull’arte di saper leggere avanzata da nonna Regina; se leggere in sé non è difficile, saper leggere non è altrettanto facile, tanto che sui criteri di lettura da sempre ci si interroga. Prendendo spunto dal personaggio Don Chisciotte della Mancia, protagonista dell’omonimo romanzo di Miguel de Cervantes Saavedra, pubblicato in due volumi negli anni 1605 e 1615, possiamo argomentare sulla difficoltà che il lettore può incontrare nella costruzione di un pensiero critico. Il povero hidalgo (gentiluomo decaduto) Alonso Chisciano (Chisciotte) totalmente assorbito dalla lettura dei romanzi cavallereschi, finisce con l’impazzire, scambiando tutto ciò che ha letto nei libri per realtà: “tanto s’immerse nelle sue letture … e così dal poco dormire e il molto leggere gli s’inaridì il cervello in maniera che perdette il giudizio. La fantasia gli si empì di tutto quello che leggeva nei libri, sia d’incantamenti che di contese, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste ed altre impossibili assurdità; e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d’immaginarie invenzioni che leggeva, fossero verità, che per lui non c’era al mondo altra storia più certa”. Risulta pertanto chiaro che la scuola deve puntare sull’educazione alla lettura per ristabilire i rapporti tra realtà e libri. Le pratiche del leggere assumono ancor oggi una rilevanza di grande portata perché solo una sicura competenza testuale garantisce il possesso di una consapevolezza matura. Davanti ad un testo è necessario porsi una costellazione di domande, necessarie a creare una “distanza” tra lettore e messaggio, “distanza” che permette l’adozione di un importante filtro critico e interpretativo. Questo approccio vigile, oggi quasi del tutto disatteso, è espresso, seppur in un linguaggio semplice e immediato, da Regina che si mostra consapevole del fatto che un pensiero critico è alla base di tutta la cultura, quella cultura che la narratrice tramanda attraverso il racconto orale, alle generazioni future. Il ruolo di educatrice che Emma affida alla narratrice, permea il capolavoro della Perodi, scrittrice cui stava a cuore la formazione dei giovani, ai quali dedicò buona parte dei suoi scritti. Consapevole di non saper leggere, nonna Regina, prima di iniziare il racconto della novella di Adamo il falsario, preciserà che si rammentava “ di avere sentito due che sapevano che anche il poeta Dante, nell’Inferno, parla di questo maestro Adamo da Brescia, il quale era con dannato a bramare una goccia d’acqua e si vedeva scorrer davanti “Li ruscelletti …”; l’episodio di Mastro Adamo era infatti uno dei più noti per gli abitanti del Casentino che lo mandavano a memoria per tramandarlo ai posteri. E sarà ancora nonna Regina che prima di iniziare a raccontare la novella L’Ombra del sire di Narbona ricorderà che fra i fiorentini “c’era anche quel Dante che fece il viaggio- Dio ci liberi- nell’Inferno e lo racconta poi in poesia”. E dopo la trasmissione di tutto il sapere attraverso la parola orale, il consiglio di nonna Regina è quello di proporre la lettura del libro di Silvio Pellico Le mie prigioni che anche Vezzosa, futura moglie di Cecco, può leggere “perché codesto libro … non è di quelli che mettono i grilli in testa; anzi è uno di quei libri che tutti dovrebbero leggere” .Il libro autobiografico, manifesto del Risorgimento, capolavoro del patriota di Saluzzo, narra delle memorie di un’esperienza personale di valore assoluto ed è stato il libro italiano più letto in Europa nella prima metà del secolo XIX. Metternich arrivò ad affermare che il libro aveva danneggiato l’Austria più di una battaglia persa anche se in realtà lo scrittore più che denunciare le terribili condizioni di prigionia sotto gli austriaci, volle testimoniare l’accettazione cristiana della propria sorte e delle proprie sofferenze quindi della volontà della Provvidenza, nel segno della quale terminano le memorie: “Ah! Delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene e il male che mi sarà serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch’ella sa adoprare a fini degni di sé”.
... ... ...
ADAMO IL FALSARIO
“Ivi è Romena, là dov’io falsai la
lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai” (Inf.
Canto XXX, vv.73-74)
La novella Adamo il falsario si presenta come
una fantasiosa rielaborazione del canto XXX dell’Inferno dove Dante narra del
suo incontro, nella decima
bolgia dell' ottavo cerchio, con i falsari. L'episodio ha per protagonista
Maestro Adamo, con la figura anatomica deformata da una patologia che lo fa
assomigliare ad un mostro; il dannato è descritto a guisa di liuto, deforme per
l’idropisia che risulta come un raro topos
di ascendenza letteraria, quale immagine di sofferenza di chi è assetato di
ricchezze. I versi dedicati a
mastro Adamo, rendono il brano dantesco tra quelli più eterogenei per stile ed
emozioni di tutto l'Inferno. Maestro Adamo, nella rocca casentinese di
Romena, falsava abilmente, la moneta fiorentina per i conti Guido, Alessandro e
Aghinolfo; il denaro veniva, poi, messo in circolazione da uno “spenditore”.
L’inganno fu scoperto a seguito di un incendio, scoppiato nella casa degli
Anchioni in via Borgo San Lorenzo a Firenze, dove abitava lo “spenditore” che
con maestro Adamo fu condannato ad essere arso vivo: era il 1281. I conti Guidi
che avrebbero dovuto subire la confisca dei beni, si “convertirono” al
guelfismo e così non solo evitarono l’applicazione della condanna, ma furono
anche chiamati a ricoprire incarichi di notevole responsabilità. Il falsario di monete si rivolge a Dante e
Virgilio citando un passo biblico ("guardate e attendete" [se esiste
un dolore come il mio] Libro delle Lamentazioni, Geremia, I,2) poi il suo
tono diventa nostalgico, nel rievocare il Casentino con i suoi ruscelletti dalle
fresche acque che egli brama. Il ricordo del castello di Romena e della sua
azione illecita lo conduce ad esprimersi con odio nei confronti dei conti Guidi
che lo indussero a peccare. La rabbia, nel rievocare il passato, si
riaccende e il falsario si abbandona ad un adinaton,
ad un’affermazione irrealizzabile: Ma
s’io vedessi qui l’anima trista di Guido o d’Alessandro o di lor frate, per
Fonte Branda non darei la vista. (vv. 76-78)
L’ipotesi impossibile prospettata dall’idropico
serve solo a rendere ancora più evidente il rancore che lo lega ai conti di
Romena.
“O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo”,
diss’elli a noi, “guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo:
io ebbi vivo assai di quel ch’i’ volli,
e ora lasso!, un gocciol d’acqua bramo.
Li ruscelletti che d’i verdi colli
Del Casentin discendon giuso in Arno,
facendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
chè l’imagine lor vie più m’asciuga
che ‘l male ond’io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
Tragge cagion del loco ov’io peccai
A metter più li miei sospiri in fuga
Ivi è Romena, là dov’io falsai
La lega suggellata del batista;
per ch’io il corpo su arso lasciai.
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
Di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
Ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, ch’ho le membra legate?
S’io fossi pur di tanto ancor leggero
Ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra sì fatta famiglia:
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia.”
... ... ...
L’OMBRA DEL SIRE DI NARBONA
L’ombra del sire di Narbona è una novella che prende avvio da un contesto
storico documentato: la battaglia di Campaldino dell’11 giugno 1289. Si tratta
di uno degli scontri più cruenti della storia della Toscana alla quale partecipò
anche il giovane Dante ventiquattrenne, come feditore a cavallo. Fu uno scontro
determinante per la vittoria dei guelfi fiorentini che combattevano contro i
ghibellini aretini. Amerigo di
Narbona, condottiero francese, visconte di Narbona, capitano delle truppe
fiorentine, è il personaggio principale della narrazione perodiana.
Nella novella Emma però, dopo pochi riferimenti storici, lascia subito il passo
ad una visione macabra che si fa viatico di un mondo fantastico dai toni cupi e
gotici e sul campo di battaglia scende un velo di maleficio, rendendolo un
regno di presenze sovrannaturali; così l’ombra del sire di Narbona diventa un revenant poiché non avendo ricevuto un
adeguato rito funebre è rimasto in qualche modo legato al mondo dei vivi. Il
tema della sorte ultraterrena dei morti insepolti, viene affrontato da Dante
nel V canto del Purgatorio quando narra della vicenda di Bonconte da
Montefeltro, giovane condottiero delle truppe ghibelline che si è salvato in exstremis per la preghiera rivolta alla Vergine, e dopo la lotta tra l’angel di Dio
e quel d’Inferno, la sua anima viene condotta in Purgatorio. Anche Amerigo
troverà pace e sepoltura perché
anch’esso devoto alla Vergine come testimonia il suo anello, l’oggetto che
permetterà il suo riconoscimento e la sua sepoltura: la Vergine dunque è figura
centrale per la risoluzione delle vicende narrate sia nella novella della
Perodi che nel canto V del Purgatorio.
La Perodi ci presenta Amerigo come “illacrimato e insepolto” al pari del
Bonconte dantesco. Nella narrazione, la scrittrice affronta il tema dei morti
insepolti allineandosi alla Divina
Commedia e alla vicenda di Bonconte, il cui corpo non fu mai ritrovato. La
novella che trova le sue radici nella storia, apre uno spiraglio alla
letteratura classica nonché ai testi dottrinali dei padri della Chiesa: il tema
affrontato con fantasia e gusto orrorifico, rimanda infatti alla tragedia greca
Antigone di Sofocle, nella quale viene affrontato il
tema dell’insepoltura di Polinice. Il rito della sepoltura rappresenta infatti
– e non solo nel mondo greco – il viatico per il cammino verso la vita
ultraterrena: è un passaggio che permette all’anima di accedere alla nuova
dimensione, pertanto se l’anima del defunto veniva privata di questo rituale,
si credeva che fosse costretta a vagare senza quiete nel mondo dei vivi. Il
rito della sepoltura era dunque un atto di pietas nel mondo classico, atto che diventerà misericordia sotto i
dettami della Chiesa. Dante affronta il tema dell’insepoltura nell’episodio di
Bonconte e lo risolve in ambito cristiano seguendo i concetti espressi negli
scritti dottrinali di sant’Agostino di Ippona (De Civitate Dei, De cura pro mortuis gerenda).
“Io fui da Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vò tra costor con bassa fronte”.
E io a lui: “qual forza o qual ventura
Ti traviò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepoltura?”
“Oh” rispuos’elli, “ a piè del Casentino
Traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ‘ve ‘i vocabol suo diventa vano,
arriva’ io, forato ne la gola,
fuggendo a piede e ‘nsanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola
Nel nome di Maria finì, e quivi
Caddi e rimase la mia carne sola.
Io dirò ‘l vero e tu ‘l ridì tra’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’eterno
Per una lagrimetta che ‘l mi toglie;
ma io farò de’ l’altro altro governo!
Ben sai come ne’ l’aere si raccoglie
Quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ‘l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
Con lo ‘ntelletto, e mosse il fummo e’l vento
Per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ‘l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ‘l ciel di sopra fece intento,
sì che ‘l pregno aere in acqua si converse:
la pioggia cadde ed a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne
ver lo fiume real tanto veloce
sì ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su’ la foce
Trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
Ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
Ch’ i’ fei di me, quando ‘l dolor mi vinse:
voltommi per le ripe e per lo fondo;
poi di sua preda mi coperse e cinse.
(Purgatorio, canto V, vv. 88-129)
E ancora Emma si ricorda del canto V del Purgatorio
che vede Bonconte vittima di dimenticanza da parte dei propri congiunti e
pertanto facente parte della schiera dei morti abbandonati in Purgatorio che
non vivono né nel cuore né nelle preghiere dei loro cari, nella novella La
morte di Messer Cione. L’oste di Poppi, non timorato di Dio, uomo
votato al male che per punizione divina vede morire tutti i suoi cari dei quali
però egli si dimentica e non si prende alcuna cura, riuscirà a salvarsi poiché
si pentirà dei suoi peccati, tra i quali sono presenti anche quelli di
omissione.
Ma espliciti riferimenti a Dante possono essere
individuati anche nella passeggiata del conte Selvatico tra i morti insepolti a Campaldino,
che rinvia a quella di Dante nel canto
X dell’ Inferno tra i sepolcri dai “coperchi
levati” e la somiglianza del personaggio di Amerigo con il suo
atteggiamento di “alterigia”
rinfacciatogli dal conte Selvatico, rimanda puntualmente al fare “quasi sdegnoso” di Farinata degli
Uberti, personaggio che Dante incontra nel sesto cerchio, all’interno della
città di Dite. (Inferno, X, vv.31-36)
... ... ...
IL NASCONDIGLIO DEL DIAVOLO
Nella novella Il nascondiglio del diavolo, Emma
narra una vicenda legata alla vita di Dante e ai primi sette canti del poema.
La scrittrice toscana incentra la narrazione sul personaggio di un poeta
fiorentino ser Bindo de’ Bindi (alias Dante Alighieri) e sul mistero
della genesi della Commedia, argomento che a tutt’oggi appassiona
gli studiosi di Dante, i quali non sono ancora giunti ad una conclusione
unanime. Ancora una volta dunque Emma, traendo spunto dalla storia/leggenda che
circolava fin dai tempi di Boccaccio, invita il lettore a seguirla nel mondo
dell’immaginazione ma anche a riflettere su un argomento che si rivelò
misterioso fin dal secolo XIV.
La narrazione prende inizio dalla vicenda del poeta
Ser Bindo dei Bindi (Dante) fiorentino, fuoriuscito che durante il viaggio
verso il castello di Staggia (Stia), dove era stato invitato dal conte Romano
de’ Guidi, a seguito di una bufera di neve, perde la mula che trasportava,
oltre i suoi bagagli, anche una valigia con i suoi preziosi scritti (i primi
sette canti del Poema): da qui si sviluppano le peripezie che ser Bindo dovrà
affrontare per recuperare i suoi scritti. Come in molte novelle della Perodi
saranno necessari interventi soprannaturali per contrastare il Diavolo cui
l’antagonista Ciapo, poeta di poco valore, aveva affidato i canti che aveva fatti
propri nascondendoli nel castello di Poppi: “Ciapo ripose dentro a quella la busta che conteneva i canti e la cassa si
richiuse con fracasso, l’imposta sbatacchiò e nessun occhio umano avrebbe
potuto trovarne traccia”. I riferimenti al poeta, esule fiorentino,
che Emma introduce nel racconto, quasi fossero indizi, sono molti: "bisogna sapere che ser Bindo aveva
incominciato un poema diviso in canti di cui ne aveva scritti sette;
e ancora riferendosi a ser Bindo scriveva “il più grande e gentile poeta di quel tempo, fuggito da Firenze,
dove aveva scritto i primi sette canti del suo poema …. col quale intendeva di
sferzare i vizi dei suoi ingrati concittadini … cosa tanto pregevole da vincere
tutti i poeti dell’antichità". In questa novella Emma affronta
anche il tema della funzione vitale del narrare: senza i suoi manoscritti, non
solo ser Bindo/Dante è ridotto al silenzio poetico ma votato a morte certa.
La perdita dei sette canti porta sconforto al poeta
Bindo che dichiarava: ”Io non potrò più
scrivere un verso – diceva l’infelice – finchè quei canti non saranno di nuovo
in mano mia. La loro perdita mi affligge tanto che io non saprei più esser
poeta. Avete sentito dire,signor di Staggia, che quando l’uomo perde il filo di
una idea non è più capace di nulla, finchè non l’ha ripreso? Ebbene in questi
sette canti sta il filo del mio grandioso poema e io non potrò riafferrarlo
finchè non li avrò sott’occhi.” Passa il tempo e i canti vengono nascosti da
un poetastro invidioso, Ciapo, mentre “Ser
Bindo, desolato per la perdita fatta, si struggeva come una candela- …. Messer
conte (diceva) io mi accorgo che la
mia fine è prossima”. Mentre ser Bindo languiva nel castello di Staggia
capitò un vecchio e saggio frate francescano che con i suoi digiuni e le sue
preghiere cercava di salvare il poeta e con vari stratagemmi recuperò i sette
canti: era sera quando fu ammesso nella
camera del morente …. Un mese dopo che ser Bindo era di nuovo in possesso dei
sette canti del poema, già dava mano all’ottavo e senza interruzione portava a
termine l’opera grandiosa”.
Il tema della funzione vitale del narrare, Emma
l’affronta anche attraverso il personaggio di nonna Regina, le cui vicende
personali riguardano anche il reiterarsi di pisolini, svenimenti, malori e
malattie, premonizioni simboliche di morte. Ad esse Regina, la narratrice,
costantemente sfugge grazie proprio alla funzione di narratrice. Il racconto
infatti differisce, come per Sherazade, l’ineluttabile, si dà come vita, come
mezzo salvifico per strappare la fabulatrice – momentaneamente – al proprio
destino. Narrare, secondo l’esempio della raccolta Mille e una notte, è
quindi lotta e rinvio.
La Perodi, tesse la trama della novella prendendo
spunto dalla versione di Boccaccio che nel Trattatello
e poi nelle Esposizioni,
riferisce un episodio accaduto cinque
anni o più dopo che Dante fu bandito da Firenze: l’indicazione
cronologica, riporta pertanto all’incirca al 1306-7. Giovanni Boccaccio narra
di un ritrovamento a Firenze dei primi sette canti dell’Inferno dopo
l’esilio di Dante quali tracce testuali di un copione primitivo la cui origine potrebbe forse
risalire ad un viaggio di Dante a Roma in occasione del giubileo. La
seconda versione, più ampia e dettagliata della prima, racconta che Gemma
Donati, prevedendo che a seguito della condanna del marito, la loro casa
sarebbe stata saccheggiata, ne
aveva asportato alcuni forzieri con certe cose più care e con iscritture di
Dante li aveva fatti nascondere in luogo sicuro. Dopo alcuni anni
Gemma cerca di ottenere le rendite che le spettavano sui beni dotali
confiscati, ma per intentare la causa deve esibire alcuni documenti che si
trovavano nei forzieri che contenevano anche un quadernetto con i primi sette
canti dell’Inferno. Ne prende
visione Dino Frescobaldi, poeta (famosissimo
dicitore in rima) e rampollo di una cospicua famiglia di banchieri
il quale ammirato di ciò che ha letto, ne fa copie e poi restituisce gli
scritti a Dante perché possa continuare la composizione interrotta. La
questione non ha trovato una soluzione condivisa, tuttavia la bibliografia
critica riconosce il fatto che i primi canti dell’Inferno, all’incirca fino alla città di Dite, presentano una serie
di caratteristiche formali, strutturali e di contenuto che li distingue dai
successivi.
Alberta Piroci Branciaroli
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Con Emma e Dante in Casentino, di Alberta Piroci Branciaoli, Illustrazioni di Armando Tacconi. Pasrco Letterario Emma Perodi e le Foreste Casentinesi