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Benedetto Croce e i Lucani

05 Luglio 2023
Benedetto Croce e i Lucani
Nella fitta schiera di personaggi italiani e stranieri, legati in vario modo alla titanica figura di Benedetto Croce, si possono annoverare non pochi intellettuali, letterati e politici lucani

Premessa
Nella fitta schiera di personaggi italiani e stranieri, legati in vario modo alla titanica figura di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952), di cui si è da poco celebrato il settantesimo anniversario della morte anche da parte del Parco Letterario a lui intitolato in Abruzzo, si possono annoverare non pochi intellettuali, letterati e politici lucani. Di alcuni di loro il grande critico, storico e filosofo abruzzese, divenuto napoletano di adozione dopo le traversie seguite alla tragedia del terremoto di Casamicciola, che nella notte del 28 luglio 1883 ne sconvolse irreparabilmente la vita, indagò da par suo le opere. Di altri, invece, ebbe diretta conoscenza e con loro poté spesso costruire concreti e fecondi rapporti umani e culturali. 
Basti citare, solo a mo' di esempio, Giustino Fortunato (Rionero in Vulture, 1848 – Napoli, 1932), per il quale Croce ebbe una stima così grande da dedicargli il saggio Cultura e vita morale. Ma si potrebbe anche menzionare Giuseppe Catenacci (Rionero in Vulture, 1893 – 1975), l’ingegnere dal “multiforme ingegno”, che fu allievo e amico del grande meridionalista lucano e più volte incontrò Croce proprio in casa di Fortunato a Napoli, dove lo aveva conosciuto. Nacque nel tempo un rapporto di così cordiale amicizia che don Benedetto accettò di essere suo testimone di nozze. Memorabile, comunque, resta del loro primo incontro il gesto di don Giustino, il quale, tratto il giovane compaesano in disparte e indicato il filosofo, gli sussurrò: «Sai, in quella testa è racchiuso tutto il sapere umano».[i]
Né si può certo dimenticare, fra i lucani che ebbero dimestichezza con Croce, lo statista Francesco Saverio Nitti (Melfi, 1868 – Roma, 1953), il quale fu Presidente del Consiglio fra il 1919 e il 1920, prima di essere costretto a un lungo esilio a Zurigo e a Parigi per la sua intransigente avversione al fascismo. O Francesco Mario Pagano (Brienza, 1748 – Napoli, 1799), esponente di spicco dell'Illuminismo meridionale e di quella Rivoluzione Napoletana, che gli troncò la vita a poco più di cinquant'anni di età e che proprio Croce giudicò essere il “primo pezzo di storia nostra”. O don Giuseppe De Luca (Sasso di Castalda, 1898 – Roma, 1962), il dotto sacerdote lucano, che molti considerano il più grande intellettuale cattolico del Novecento e il cui fecondo sodalizio con colui che Gramsci aveva definito il “Papa laico” è testimoniato da un corposo e significativo carteggio.[ii]

Croce e Isabella Morra
Qui, però, delle tante importanti personalità lucane che entrarono nell’orbita crociana, se ne vogliono ricordare rapidamente tre, partendo dalla più nota, Isabella Morra (Favale, 1520 circa – 1545/46), che nello scorcio finale del 1928 indusse Croce a partire per Valsinni, l'antica Favale, un piccolo sconosciuto borgo lucano.
A sollecitarlo a interessarsi dell'opera poetica della giovane nobildonna era stato oltre vent'anni prima l'etnologo, linguista e storico della letteratura Angelo De Gubernatis. Nel fargli dono del suo saggio, “Isabella Morra. Le Rime”, che era servito a riscoprire l'esigua raccolta della poetessa rinascimentale, considerata una delle più rilevanti figure del petrarchismo, egli aveva invitato don Benedetto a occuparsi delle poesie della giovinetta, che aveva consumato la sua breve, oscura e infelice esistenza in un solitario castello lucano affacciato sul Siri. Era convinto, ben a ragione, che un suo autorevole contributo critico sarebbe servito a disseppellire e a riportare alla luce la vita dell'autrice e la sua opera.
Croce, seppure con un ritardo di molti anni, accolse l’invito del De Gubernatis e si mise in viaggio per Valsinni, dove, dal 23 al 25 novembre, fu ospite di un medico suo amico, Domenico Guarino. In realtà, come ricorda Giovanni Caserta, nel suo breve ma faticoso “viaggio-pellegrinaggio” egli non riuscì a trovare «nulla, tranne l'aura entro cui nacque una poesia, che, espressione dell'isolamento geografico dell'antica Valsinni, diventava il canto della solitudine. Non per nulla immagini e ritmi e sospiri e parole richiamavano il Leopardi di tre secoli dopo».[iii]
In ogni caso il saggio crociano, apparso l'anno successivo ne La critica,[iv] risultò determinante per diffondere la conoscenza della tragica storia di Isabella, barbaramente assassinata dai fratelli con l'istitutore e il presunto amante Diego Sandoval de Castro, il poeta spagnolo e barone di Bollita (oggi Nova Siri), altro oscuro paese lucano. Ma ciò che più conta è che l'approfondito studio del Croce servì a lumeggiare il senso e il valore dello striminzito Canzoniere morriano, formato da soli 13 componimenti, 10 sonetti e 3 canzoni, e a suscitare la curiosità e l'interesse di altri studiosi, che produssero una serie di rilevanti contributi critici.
Piace, a tale proposito, segnalare che le dolorose vicende della poetessa di Valsinni, cui è intitolato uno dei sei Parchi Letterari lucani, hanno anche ispirato il corposo e interessante romanzo I prigionieri del Siri di Antonio Casoria.  L'autore, studioso appassionato del Rinascimento nell'Italia meridionale, offre un prezioso contributo non solo a delineare la figura di Isabella Morra, ma anche a ricostruire il contesto storico in cui si svolsero i fatti che la videro protagonista e vittima.
Recentemente, infine, Isabella Morra è approdata in un lontano Paese dalle nobili tradizioni letterarie qual è la Russia. Nel maggio scorso, infatti, sono state pubblicate su varie e prestigiose riviste letterarie le sue poesie (РоманДубровкин ИЗАБЕЛЛА ДИ МОРРА), tradotte in lingua russa  da Roman Doubrovkine. Esse sono state supportate da un saggio dello stesso traduttore sui misteri, che avvolsero la vita e la morte della poetessa di Valsinni, la quale è stata inserita in molte antologie russe dedicate al Rinascimento italiano. 

Croce e Francesco Cerabona
In tutt'altro àmbito si collocano le relazioni di Benedetto Croce con Francesco Cerabona (Aliano, 9 dicembre 1882 – Napoli, 26 luglio 1963), un avvocato, che fu anche uomo politico di lungo corso. Fu, infatti, deputato del Regno d'Italia dal 1919 al 1924 durante la XXV e XXVI legislatura e poi parlamentare del PSI nelle prime tre legislature repubblicane dal 1948 al 1963.
Frequentò Croce negli anni di grande fervore politico che seguirono alla caduta del fascismo. Alla fine di gennaio 1944 era con lui al Congresso di Bari, dove i nuovi partiti politici italiani, riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), miravano a creare un’intesa programmatica sui molti e gravi problemi determinati dalla guerra e dalla dittatura. Essa prevedeva essenzialmente due punti, l'abdicazione del Re e la composizione di un Governo, formato da tutti i partiti del CLN, che avesse i pieni poteri per affrontare l'emergenza della guerra e per dare vita a un'Assemblea Costituente.
Croce e Cerabona, poi, si ritrovarono al Teatro “Modernissimo” di Napoli l'11 aprile 1944 ad ascoltare il discorso di Palmiro Togliatti, quando si posero le basi per la famosa svolta storia di Salerno, che vide nascere il 24 aprile il Governo di unità nazionale guidato da Pietro Badoglio con la partecipazione dei sei partiti antifascisti. Il liberale Croce in quel Governo fu Ministro senza portafoglio, Cerabona vi entrò come rappresentante del Partito Democratico del Lavoro (PDL) ed ebbe l’incarico di Ministro delle Comunicazioni.
A questo punto sia consentita una digressione, per raccontare ciò che accadde nel 1946, allorché Cerabona fu candidato all'Assemblea Costituente nella circoscrizione di Potenza-Matera con l’Unione Democratica Nazionale. In quella campagna elettorale gli capitò di incontrare spesso in diversi paesi lucani Carlo Levi, candidato per il Movimento Democratico Repubblicano. Tali incontri suscitarono un forte disappunto nell'avvocato lucano, che riteneva un temibile antagonista l'ex-confinato antifascista torinese, reduce dal clamoroso successo conseguito con il libro Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato circa un anno prima.
Non esitò, dunque, a proporgli una sorta di patto di non belligeranza in ragione del fatto che erano entrambi uomini di sinistra. A Levi l'estemporanea proposta suonò più che strana, perché gli risultava difficile considerare di sinistra l'avvocato lucano. Questi, infatti, pur essendo stato innegabilmente un antifascista, rimaneva pur sempre ai suoi occhi un esponente della famigerata borghesia meridionale. Insomma, uno di quei “galantuomini” che alcuni anni dopo, nel suo romanzo L'orologio, avrebbe chiamato con scherno “luigini”, evocando sarcasticamente il nome del podestà di Aliano.
Ad ogni modo l'artista torinese fu molto divertito nel venire a conoscenza di uno stratagemma usato dall’avvocato ex-nittiano per ottenere i voti di preferenza. Affidiamo il racconto del curioso aneddoto alle parole di Giovanni Russo, che a Potenza fu testimone di alcuni incontri casuali tra Carlo Levi e Francesco Cerabona nell'albergo “Lombardo”. «Cerabona - scrive il noto giornalista - aveva scelto nelle liste elettorali il terzo posto contraddistinto dal numero tre. […] Fra i contadini c'erano molti analfabeti. Egli esortava e consigliava di mettere sulla scheda l'indice e il medio della mano sinistra e poi di tracciare con la matita un segno attorno ai due polpastrelli: in questo modo si disegna il numero 3, che corrispondeva al voto di preferenza di Cerabona, il quale raccolse in questo modo molti voti: in fondo non era che un “luigino” introdottosi nel Partito Comunista». [v]

Croce e Vincenzo Cilento
Resta da raccontare, infine, la terza storia, che più di tutte ci sta a cuore per l'affettuoso ricordo personale e la venerazione che da tempo nutriamo per uno dei due protagonisti, che fu un grande barnabita lucano. Si vuol dire di Vincenzo Cilento (Stigliano, 1 dicembre 1903 - Napoli, 7 febbraio 1980), il quale negli anni Trenta iniziò a frequentare assiduamente palazzo Filomarino, la storica abitazione napoletana di Croce, avvolta da «quieti alti silenzi». Grazie al loro sodalizio umano e intellettuale, quella casa divenne per Cilento un sacro Tempio, che «estro genio pietà ospiti accolse».[vi]
Don Benedetto mostrò subito un affetto quasi paterno per il giovane barnabita stiglianese, che confidenzialmente chiamava Vincenzino, e profonda fu la stima che ebbe per le sue rare doti intellettuali, come testimonia una lettera del 1947 a Vittorio Enzo Alfieri, nella quale scriveva di lui come di “un Padre barnabita dottissimo in letteratura e in filosofia e ottimo filologo, che vive assorto nei suoi studi”.
Dal suo canto Cilento proprio nello stesso anno affidava i suoi sentimenti di cordiale gratitudine e di sincera ammirazione per Croce, definito “dolce Vegliardo”, a una bella poesia in cui fra l'altro scrisse: «Eri nostra dimora: gravemente / su te crescemmo; per le tue pensose / pagine il cuore spaziò più grande / ché lo spirto fluiva come dolce / miele che stilla lene lento grave».[vii]
Il riconoscimento del magistero crociano, che influenzerà in maniera decisiva l'attività di ricerca e di studio di Cilento, è ribadito poi con maggiore intensità poetica nei versi successivi: «Quando il mio cuore fu una tazza colma / te vidi e amai: il fuoco tuo di ieri / ora è cenere calda che consola / l'ignuda cella ove la mente mia / si strugge in guerra con se stessa e Iddio».[viii]
Il primo impegnativo lavoro, dunque, portato avanti peraltro in condizioni di estrema difficoltà durante la guerra e negli anni immediatamente successivi, fu realizzato dal Cilento su incoraggiamento di Croce, che si fece poi promotore della pubblicazione presso Laterza. Si tratta, come molti sanno, della traduzione integrale, la prima in lingua italiana, delle Enneadi di Plotino, un'opera affascinante ma di rara complessità. Non è meraviglia, perciò, che Benedetto Croce, oltre all'amata mamma dell'autore da poco scomparsa, sia il destinatario della raffinata dedica, animata da fervido spirito plotiniano.
Va detto, inoltre, che Padre Vincenzo godette della considerazione affettuosa non solo di don Benedetto, ma dell'intera sua famiglia, tant'è che fu proprio lui a celebrare nel 1949 il matrimonio di Lidia, terzogenita figlia del filosofo e di Adele Rossi, con lo storico Vittorio de Caprariis.
Ma uno degli episodi più significativi, che prova la solidità di questo straordinario rapporto umano, oltre che culturale, accadde nel 1952. Benché alcuni esponenti delle file più conservatrici della Curia romana avessero più volte manifestato un forte disappunto per la sua frequentazione di Croce, Cilento volle essere presente ai funerali dell'Amico. Ai molti giornalisti poi, che nei giorni successivi lo assillavano, chiedendogli con insistenza se questi si fosse convertito e magari confessato in punto di morte, serenamente rispose che i grandi Spiriti si confessano direttamente con Dio. Si chiuse, poi, in un impenetrabile riserbo, soffrendo in silenzio per le accuse ingiuste che gli erano state rivolte in seguito alle sue dichiarazioni, che a molti erano apparse inaccettabili per la loro eterodossia. Alcuni, purtroppo, non compresero, o non vollero comprendere, il senso profondo delle luminose parole del sacerdote lucano, che, in una sublime sintesi, facevano risplendere sapienza filosofica e cristiana pietà.
Croce e Cilento non si sono separati neppure dopo la morte, perché entrambi riposano nel cimitero napoletano sulla collina di Poggioreale. Ci piace immaginare che là, il primo sepolto nella cappella di famiglia e l’altro in quella dei Padri Barnabiti, perpetuino il loro nobile sodalizio terreno e continuino a conversare di Poesia e Filosofia, Storia e Mito, Cristianesimo e Religione della libertà. E, così socratizzando, non smettano di indagare il mistero dell’Uomo e del Mondo.

Angelo Colangelo



[i]      G. Mastromarino, Il mondo di Giustino Fortunato nei suoi scritti e nel racconto di Giuseppe Catenacci e di don Giovanni Minozzi, Giannatelli, Matera 2020, p. 56
[ii]     Benedetto Croce – Giuseppe De Luca, Carteggio (1922 – 1951), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2010
[iii]    G. Caserta, Disegno storico della letteratura lucana, Villani, Potenza, 2020, p. 136
[iv]    B. Croce, Rime d'Isabella di Morra e di Diego Sandoval de Castro, in La Critica, vol. 27, n. 2, Laterza, Bari, 1929, pp. 126-140
[v]     G. Russo, Carlo Levi segreto, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2011, p. 53
[vi] 
   V. Cilento, Biblioteca Croce, passim, in Ore di poesia, Nuove Edizioni Tempi Moderni, Napoli, 1990
[vii]   Ibidem, p. 43
[viii]   Ibidem, vv. 59-63

Riproduzione riservata © Copyright I Parchi Letterari

Immagine del Parco Letterario Isabella Morra di Valsinni. Benedetto Croce e il Castello di Valsinni 


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