Premessa
Nella fitta schiera di
personaggi italiani e stranieri, legati in vario modo alla titanica figura di
Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952), di
cui si è da poco celebrato il settantesimo anniversario della morte anche da
parte del Parco Letterario a lui intitolato in Abruzzo, si possono annoverare
non pochi intellettuali, letterati e politici lucani. Di alcuni di loro il
grande critico, storico e filosofo abruzzese, divenuto napoletano di adozione
dopo le traversie seguite alla tragedia del terremoto di Casamicciola, che
nella notte del 28 luglio 1883 ne sconvolse irreparabilmente la vita, indagò da
par suo le opere. Di altri, invece, ebbe diretta conoscenza e con loro poté
spesso costruire concreti e fecondi rapporti umani e culturali.
Basti citare, solo a mo'
di esempio, Giustino Fortunato (Rionero in Vulture, 1848 – Napoli, 1932), per
il quale Croce ebbe una stima così grande da dedicargli il saggio Cultura e
vita morale. Ma si potrebbe anche menzionare Giuseppe Catenacci (Rionero in
Vulture, 1893 – 1975), l’ingegnere dal “multiforme ingegno”, che fu allievo e
amico del grande meridionalista lucano e più volte incontrò Croce proprio in
casa di Fortunato a Napoli, dove lo aveva conosciuto. Nacque nel tempo un
rapporto di così cordiale amicizia che don Benedetto accettò di essere suo
testimone di nozze. Memorabile, comunque, resta del loro primo incontro il
gesto di don Giustino, il quale, tratto il giovane compaesano in disparte e
indicato il filosofo, gli sussurrò: «Sai, in quella testa è racchiuso
tutto il sapere umano».[i]
Né si può certo
dimenticare, fra i lucani che ebbero dimestichezza con Croce, lo statista
Francesco Saverio Nitti (Melfi, 1868 – Roma, 1953), il quale fu Presidente del
Consiglio fra il 1919 e il 1920, prima di essere costretto a un lungo esilio a
Zurigo e a Parigi per la sua intransigente avversione al fascismo. O Francesco
Mario Pagano (Brienza, 1748 – Napoli, 1799), esponente di spicco dell'Illuminismo
meridionale e di quella Rivoluzione Napoletana, che gli troncò la vita a poco
più di cinquant'anni di età e che proprio Croce giudicò essere il “primo pezzo
di storia nostra”. O don Giuseppe De Luca (Sasso di Castalda, 1898 – Roma,
1962), il dotto sacerdote lucano, che molti considerano il più grande
intellettuale cattolico del Novecento e il cui fecondo sodalizio con colui che
Gramsci aveva definito il “Papa laico” è testimoniato da un corposo e
significativo carteggio.[ii]
Croce e Isabella Morra
Qui, però, delle tante
importanti personalità lucane che entrarono nell’orbita crociana, se ne
vogliono ricordare rapidamente tre, partendo dalla più nota, Isabella Morra
(Favale, 1520 circa – 1545/46), che nello scorcio finale del 1928 indusse Croce
a partire per Valsinni, l'antica Favale, un piccolo sconosciuto borgo lucano.
A sollecitarlo a
interessarsi dell'opera poetica della giovane nobildonna era stato oltre
vent'anni prima l'etnologo, linguista e storico della letteratura Angelo De
Gubernatis. Nel fargli dono del suo saggio, “Isabella Morra. Le Rime”,
che era servito a riscoprire l'esigua raccolta della poetessa rinascimentale,
considerata una delle più rilevanti figure del petrarchismo, egli aveva
invitato don Benedetto a occuparsi delle poesie della giovinetta, che aveva
consumato la sua breve, oscura e infelice esistenza in un solitario castello
lucano affacciato sul Siri. Era convinto, ben a ragione, che un suo autorevole
contributo critico sarebbe servito a disseppellire e a riportare alla luce la
vita dell'autrice e la sua opera.
Croce, seppure con un
ritardo di molti anni, accolse l’invito del De Gubernatis e si mise in viaggio
per Valsinni, dove, dal 23 al 25 novembre, fu ospite di un medico suo amico,
Domenico Guarino. In realtà, come ricorda Giovanni Caserta, nel suo breve ma
faticoso “viaggio-pellegrinaggio” egli non riuscì a trovare «nulla, tranne l'aura entro cui nacque
una poesia, che, espressione dell'isolamento geografico dell'antica Valsinni,
diventava il canto della solitudine. Non per nulla immagini e ritmi e sospiri e
parole richiamavano il Leopardi di tre secoli dopo».[iii]
In ogni caso il saggio
crociano, apparso l'anno successivo ne La critica,[iv]
risultò determinante per diffondere la conoscenza della tragica storia di
Isabella, barbaramente assassinata dai fratelli con l'istitutore e il presunto
amante Diego Sandoval de Castro, il poeta spagnolo e barone di Bollita (oggi
Nova Siri), altro oscuro paese lucano. Ma ciò che più conta è che
l'approfondito studio del Croce servì a lumeggiare il senso e il valore dello
striminzito Canzoniere morriano, formato da soli 13 componimenti, 10
sonetti e 3 canzoni, e a suscitare la curiosità e l'interesse di altri
studiosi, che produssero una serie di rilevanti contributi critici.
Piace,
a tale proposito, segnalare che le dolorose vicende della poetessa di Valsinni,
cui è intitolato uno dei sei Parchi Letterari lucani, hanno anche ispirato il
corposo e interessante romanzo I prigionieri del Siri di Antonio
Casoria. L'autore, studioso appassionato
del Rinascimento nell'Italia meridionale, offre un prezioso contributo non solo
a delineare la figura di Isabella Morra, ma anche a ricostruire il contesto
storico in cui si svolsero i fatti che la videro protagonista e vittima.
Recentemente,
infine, Isabella Morra è approdata in un lontano Paese dalle nobili tradizioni
letterarie qual è la Russia. Nel maggio scorso, infatti, sono state pubblicate
su varie e prestigiose riviste letterarie le sue poesie (РоманДубровкин ИЗАБЕЛЛА ДИ
МОРРА), tradotte
in lingua russa da Roman Doubrovkine. Esse sono state
supportate da un saggio dello stesso traduttore sui misteri, che avvolsero la
vita e la morte della poetessa di Valsinni, la quale è stata inserita in molte
antologie russe dedicate al Rinascimento italiano.
Croce e Francesco Cerabona
In tutt'altro àmbito si
collocano le relazioni di Benedetto Croce con Francesco Cerabona (Aliano, 9
dicembre 1882 – Napoli, 26 luglio 1963), un avvocato, che fu anche uomo
politico di lungo corso. Fu, infatti, deputato del Regno d'Italia dal 1919 al
1924 durante la XXV e XXVI legislatura e poi parlamentare del PSI nelle prime
tre legislature repubblicane dal 1948 al 1963.
Frequentò Croce negli
anni di grande fervore politico che seguirono alla caduta del fascismo. Alla
fine di gennaio 1944 era con lui al Congresso di Bari, dove i nuovi partiti
politici italiani, riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN),
miravano a creare un’intesa programmatica sui molti e gravi problemi
determinati dalla guerra e dalla dittatura. Essa prevedeva essenzialmente due
punti, l'abdicazione del Re e la composizione di un Governo, formato da tutti i
partiti del CLN, che avesse i pieni poteri per affrontare l'emergenza della
guerra e per dare vita a un'Assemblea Costituente.
Croce e Cerabona, poi, si
ritrovarono al Teatro “Modernissimo” di Napoli l'11 aprile 1944 ad ascoltare il
discorso di Palmiro Togliatti, quando si posero le basi per la famosa svolta
storia di Salerno, che vide nascere il 24 aprile il Governo di unità nazionale
guidato da Pietro Badoglio con la partecipazione dei sei partiti antifascisti.
Il liberale Croce in quel Governo fu Ministro senza portafoglio, Cerabona vi
entrò come rappresentante del Partito Democratico del Lavoro (PDL) ed ebbe
l’incarico di Ministro delle Comunicazioni.
A questo punto sia
consentita una digressione, per raccontare ciò che accadde nel 1946, allorché
Cerabona fu candidato all'Assemblea Costituente nella circoscrizione di
Potenza-Matera con l’Unione Democratica Nazionale. In quella campagna
elettorale gli capitò di incontrare spesso in diversi paesi lucani Carlo Levi,
candidato per il Movimento Democratico Repubblicano. Tali incontri suscitarono
un forte disappunto nell'avvocato lucano, che riteneva un temibile antagonista
l'ex-confinato antifascista torinese, reduce dal clamoroso successo conseguito
con il libro Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato circa un anno
prima.
Non esitò, dunque, a
proporgli una sorta di patto di non belligeranza in ragione del fatto che erano
entrambi uomini di sinistra. A Levi l'estemporanea proposta suonò più che
strana, perché gli risultava difficile considerare di sinistra l'avvocato
lucano. Questi, infatti, pur essendo stato innegabilmente un antifascista, rimaneva
pur sempre ai suoi occhi un esponente della famigerata borghesia meridionale.
Insomma, uno di quei “galantuomini” che alcuni anni dopo, nel suo romanzo L'orologio,
avrebbe chiamato con scherno “luigini”, evocando sarcasticamente il nome del
podestà di Aliano.
Ad ogni modo l'artista
torinese fu molto divertito nel venire a conoscenza di uno stratagemma usato
dall’avvocato ex-nittiano per ottenere i voti di preferenza. Affidiamo il
racconto del curioso aneddoto alle parole di Giovanni Russo, che a Potenza fu
testimone di alcuni incontri casuali tra Carlo Levi e Francesco Cerabona
nell'albergo “Lombardo”. «Cerabona - scrive il noto giornalista - aveva scelto nelle
liste elettorali il terzo posto contraddistinto dal numero tre. […]
Fra i contadini c'erano
molti analfabeti. Egli esortava e consigliava di mettere sulla scheda l'indice
e il medio della mano sinistra e poi di tracciare con la matita un segno
attorno ai due polpastrelli: in questo modo si disegna il numero 3, che
corrispondeva al voto di preferenza di Cerabona, il quale raccolse in questo
modo molti voti: in fondo non era che un “luigino” introdottosi nel Partito
Comunista».
[v]
Croce e Vincenzo Cilento
Resta da raccontare,
infine, la terza storia, che più di tutte ci sta a cuore per l'affettuoso ricordo
personale e la venerazione che da tempo nutriamo per uno dei due protagonisti,
che fu un grande barnabita lucano. Si vuol dire di Vincenzo Cilento (Stigliano,
1 dicembre 1903 - Napoli, 7 febbraio 1980), il quale negli anni Trenta iniziò a
frequentare assiduamente palazzo Filomarino, la storica abitazione napoletana
di Croce, avvolta da «quieti alti silenzi». Grazie al loro sodalizio umano e
intellettuale, quella casa divenne per Cilento un sacro Tempio, che «estro genio pietà ospiti accolse».[vi]
Don Benedetto mostrò
subito un affetto quasi paterno per il giovane barnabita stiglianese, che confidenzialmente chiamava Vincenzino,
e profonda fu la stima che ebbe per le sue rare doti intellettuali, come
testimonia una lettera del 1947 a Vittorio Enzo Alfieri, nella quale scriveva
di lui come di “un Padre barnabita dottissimo in letteratura e in filosofia e
ottimo filologo, che vive assorto nei suoi studi”.
Dal suo canto Cilento
proprio nello stesso anno affidava i suoi sentimenti di cordiale gratitudine e
di sincera ammirazione per Croce, definito “dolce Vegliardo”, a una bella
poesia in cui fra l'altro scrisse: «Eri nostra dimora: gravemente / su te
crescemmo; per le tue pensose / pagine il cuore spaziò più grande / ché lo
spirto fluiva come dolce / miele che stilla lene lento grave».[vii]
Il riconoscimento del
magistero crociano, che influenzerà in maniera decisiva l'attività di ricerca e
di studio di Cilento, è ribadito poi con maggiore intensità poetica nei versi
successivi: «Quando
il mio cuore fu una tazza colma / te vidi e amai: il fuoco tuo di ieri / ora è
cenere calda che consola / l'ignuda cella ove la mente mia / si strugge in
guerra con se stessa e Iddio».[viii]
Il primo impegnativo lavoro, dunque, portato avanti peraltro
in condizioni di estrema difficoltà durante la guerra e negli anni
immediatamente successivi, fu realizzato dal Cilento su incoraggiamento di
Croce, che si fece poi promotore della pubblicazione presso Laterza. Si tratta,
come molti sanno, della traduzione integrale, la prima in lingua italiana,
delle Enneadi di Plotino, un'opera affascinante ma di rara complessità.
Non è meraviglia, perciò, che Benedetto Croce, oltre all'amata mamma
dell'autore da poco scomparsa, sia il destinatario della raffinata dedica,
animata da fervido spirito plotiniano.
Va detto, inoltre, che Padre Vincenzo godette della
considerazione affettuosa non solo di don Benedetto, ma dell'intera sua
famiglia, tant'è che fu proprio lui a celebrare nel 1949 il matrimonio di
Lidia, terzogenita figlia del filosofo e di Adele Rossi, con lo storico
Vittorio de Caprariis.
Ma uno degli episodi più significativi, che prova la solidità
di questo straordinario rapporto umano, oltre che culturale, accadde nel 1952.
Benché alcuni esponenti delle file più conservatrici della Curia romana avessero
più volte manifestato un forte disappunto per la sua frequentazione di Croce,
Cilento volle essere presente ai funerali dell'Amico. Ai molti giornalisti poi,
che nei giorni successivi lo assillavano, chiedendogli con insistenza se questi
si fosse convertito e magari confessato in punto di morte, serenamente rispose
che i grandi Spiriti si confessano direttamente con Dio. Si chiuse, poi, in un
impenetrabile riserbo, soffrendo in silenzio per le accuse ingiuste che gli
erano state rivolte in seguito alle sue dichiarazioni, che a molti erano
apparse inaccettabili per la loro eterodossia. Alcuni, purtroppo, non compresero,
o non vollero comprendere, il senso profondo delle luminose parole del
sacerdote lucano, che, in una sublime sintesi, facevano risplendere sapienza
filosofica e cristiana pietà.
Croce e Cilento non si sono separati neppure dopo la
morte, perché entrambi riposano nel cimitero napoletano sulla collina di
Poggioreale. Ci piace immaginare che là, il primo sepolto nella cappella di
famiglia e l’altro in quella dei Padri Barnabiti, perpetuino il loro nobile
sodalizio terreno e continuino a conversare di Poesia e Filosofia, Storia e
Mito, Cristianesimo e Religione della libertà. E, così socratizzando, non
smettano di indagare il mistero dell’Uomo
e del Mondo.
Angelo Colangelo
[i] G. Mastromarino, Il mondo di Giustino
Fortunato nei suoi scritti e nel racconto di Giuseppe Catenacci e di don
Giovanni Minozzi, Giannatelli, Matera 2020, p. 56
[ii] Benedetto Croce – Giuseppe De Luca,
Carteggio (1922 – 1951), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2010
[iii] G. Caserta, Disegno storico della
letteratura lucana, Villani, Potenza, 2020, p. 136
[iv] B. Croce, Rime d'Isabella di Morra e di
Diego Sandoval de Castro, in La Critica, vol. 27, n. 2, Laterza, Bari,
1929, pp. 126-140
[v] G. Russo, Carlo Levi segreto,
Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2011, p. 53
[vi] V. Cilento, Biblioteca Croce, passim, in Ore
di poesia, Nuove Edizioni Tempi Moderni, Napoli, 1990
[vii] Ibidem,
p. 43
[viii] Ibidem, vv. 59-63
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