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La poesia e la letteratura non morranno

21 Marzo 2024
La poesia e la letteratura non morranno
La storia ci mostra che anche negli inverni più lunghi e più gelidi, quando pare essersi ibernato, il cuore degli uomini è pur sempre palpitante di vita ed è pronto ad accogliere e a coltivare la poesia, l’arte, il pensiero filosofico

Non sono pochi coloro che da un po’ di tempo si domandano se in futuro nel mondo possa avere ancora una ragione d’essere la letteratura, intesa come attività finalizzata alla creazione di opere, che fanno della “parola” uno strumento di espressione di idee, sentimenti, valori e, di conseguenza, un veicolo di conoscenza e di cultura. Perché la “parola”, si disse con un’espressione pregnante di senso e di poesia, «è il mito poetico dell’umanità creante» (1), in quanto è araldo del pensiero e dell’umano sentire.
L’inquietante interrogativo riguarda naturalmente anche l’Italia, dove in questo tempo, in cui si ama vivere immersi in un eterno presente, si idolatrano i nuovi totem del pragmatismo e della tecnologia. Per questo hanno preso il sopravvento i nuovi codici e registri linguistici imposti dai social, che offendono la grammatica, immiseriscono il lessico, ignorano la dimensione letteraria. La cultura umanistica ne risulta del tutto svilita ed è considerata un abito vecchio, che può essere dismesso senza rimpianto. Alcuni, perciò, sono giunti a proclamare l’inutilità della letteratura e ne hanno preannunciato addirittura l’estinzione.
Noi riteniamo sia cosa saggia non prestare ascolto a questi nuovi falsi profeti, non dissimili da coloro i quali nel passato profetizzarono la morte di Dio o la morte dell’arte, ma furono clamorosamente smentiti. D’altronde, la storia ci mostra che anche negli inverni più lunghi e più gelidi, quando pare essersi ibernato, il cuore degli uomini è pur sempre palpitante di vita ed è pronto ad accogliere e a coltivare la poesia, l’arte, il pensiero filosofico, il sentimento religioso, vale a dire tutte le attività dello spirito, che della vita sono ad un tempo un’eterna aspirazione e un’espressione sublime. La letteratura, dunque, potrà scomparire solo se e quando nel mondo si perderà ogni traccia di umanità.
Tale nostro convincimento, di primo acchito, sembrerebbe essere smentito dalle parole del Poeta, che, sulle orme del Salmista, con accorata amarezza confessa e ricorda: «Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese, / oscillavano lievi al triste vento». La Musa, infatti, era obbligata a tacere, mentre si era nel culmine della tragedia e moltitudini di persone si ritrovavano «con il piede straniero sopra il cuore, / tra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, …» (2). Sono, purtroppo, scene antiche e maledettamente attuali, che, ora come allora, fanno temere per la sopravvivenza stessa dell’umanità!
In altre parole in quegli anni di umana follia non poteva esserci spazio per la poesia o per altre occupazioni letterarie ed artistiche, perché l’unica urgenza era la lotta di liberazione dalla feroce occupazione nazista. Come agli ebrei, che rifiutarono di elevare inni al Signore al tempo della cattività babilonese, anche al nuovo Poeta fu d’obbligo deporre la cetra. Ma non per sempre, perché non era scomparsa la fiducia che la vita e, con essa, la poesia sarebbero presto risorte.
Così fu. Non a caso in quello stesso torno di tempo si levò alta la voce dell’altro Poeta, che, dopo aver disvelato con spietata crudezza i patimenti e il dolore di milioni di persone nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, non esitava ad ammonire con toni perentori e solenni: «Meditate che questo è stato: / vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / stando in casa andando per via, / coricandovi, alzandovi. / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / la malattia vi impedisca, / i vostri nati torcano il viso da voi». (3)
 Sopravvissuto miracolosamente all’inferno di Auschwitz, l’autore di questi versi accorati era consapevole di quanto fossero fondati il pensiero e il timore che «coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo. (Those who cannot remember the past are condemned to repet it)». (4)  Affidava, pertanto, alla poesia e alla letteratura l’inderogabile compito di far conoscere e tenere viva la memoria della tragedia immane, che si era appena consumata, e di trasmettere alle future generazioni i valori necessari a impedire la colpevole reiterazione di quegli abominevoli orrori.

È, dunque, agevole comprendere la ragione per cui subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale testimonianza e denuncia fossero ritenute le finalità preminenti, se non esclusive, delle opere letterarie. Ritornava, in sostanza, l’antica idea della funzione civile della letteratura e del rapporto inscindibile di questa con la società, che il Foscolo, pur in un contesto storico del tutto diverso, nel gennaio 1809 aveva esposto con lucidità e passione nella sua orazione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della letteratura alla Università di Pavia.
Terminata finalmente la guerra ed essendo ancora vivi gli orrori che essa aveva procurati, certo non mancava chi immaginava la letteratura come una possibile via di fuga da una realtà dolorosa e inquietante. Erano, però, voci isolate, perché perlopiù si rifuggiva da una concezione arcadica della poesia, che costruisse attraverso la finzione letteraria mondi fittizi di serenità e di pace. Chi pure preferì ripiegarsi in sé stesso con animo profondamente disilluso, comunque ripudiò un atteggiamento di sterile solipsismo e coltivò sì una poesia interiore, ma senza recidere del tutto il rapporto con la realtà.
Non mancavano a costoro modelli autorevoli di poesia intimista. Tale era da tutti considerato Francesco Petrarca (1304 - 1374), che nel mirabile Canzoniere non solo aveva messo a nudo la sua anima, manifestandone inquietudini e conflitti con rara finezza psicologica e con accenti di alta liricità, ma aveva fatto emergere la sua “egritudine”, un’assidua afflizione dell’anima, che tramite Goethe, i romantici e Leopardi sarebbe poi pervenuta a molti poeti moderni.
Né è un caso che nel Secretum (De secreto conflictu curarum mearum) Petrarca avesse scelto come interlocutore Agostino (354 - 430), «il poetico scopritore dell’intimità» e inventore di «un nuovo stile adatto a questo autoritratto dell’anima». (5) Il grande vescovo di Ippona, che aveva cantato il suo insopprimibile bisogno di amore per gli uomini e verso Dio (Amare et amari dulce mihi erat… (6) ), aveva, pur egli, adottato il metodo dell’analisi introspettiva, già sperimentata dall’imperatore e filosofo Marco Aurelio (121 - 180) nella originale opera A se stesso (Tà eίs eautòn), e nelle sue Confessioni l’aveva innalzata a vette eccelse di pensiero e di poesia.

Tornando al discorso della narrativa negli anni postbellici, va sottolineato che, quando fu necessario avviare la ricostruzione del Paese, morale prima ancora che materiale, si assisté alla nascita di un notevole e fortunato filone letterario, che nel giro di pochi decenni avrebbe accumulato un patrimonio ricco e prezioso. Questo recava perlopiù il segno della memoria storica e antropologica e rivelava una grande attenzione ai problemi sociali e civili.
Senza darne un’ampia rappresentazione e a puro scopo esemplificativo qui si indicano a tale proposito solo poche opere, che, nate in tempi e luoghi diversi, hanno avuto una grande risonanza mondiale ed hanno assunto il valore dell’esemplarità. Accenniamo subito alle prime tre, che abbiamo individuato in Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn (1918 - 2008), Mille splendidi soli di Khaled Hosseini (1965 -), Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (1902 - 1975).
La prima è un’intensa e avvincente opera in tre volumi, in cui convivono senza stridore ricerca storiografica, autobiografia, denuncia coraggiosa della drammatica realtà dei gulag, i famigerati campi di concentramento sorti fin dagli anni Trenta in URSS, per internare i dissidenti del regime comunista e sottoporli ai lavori forzati a fini rieducativi. Grazie alla felice scelta dell’autore di avvalersi delle testimonianze di numerose vittime, Arcipelago Gulag assume anche i lineamenti di uno stupendo romanzo corale, tragico ed epico ad un tempo, che diventa un imperituro monumento alla tragedia di un popolo.
Non sorprende che il libro sia diventato un clamoroso caso letterario a livello mondiale per il suo intrinseco valore artistico e per altre ragioni. Un grande peso, infatti, ebbero le vicissitudini sia dell’autore, che fu costretto a lasciare il suo Paese, dove poté ritornare solo dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, sia dell’opera, che, concepita nel 1958, per poter essere pubblicata, dovette essere trafugata in Occidente. Solženicyn, dopo aver microfilmato il testo, lo fece pervenire ad amici francesi, che nel 1973 si preoccuparono di pubblicarlo a Parigi.
Notevole è anche il romanzo pubblicato nel 2007 da Hosseini, scrittore e medico afghano naturalizzato statunitense, già famoso per il best-seller Il cacciatore di aquiloni. In Mille splendidi soli, ambientato fra Herat e Kabul, attraverso le tristi vicende della protagonista Mariam, figlia illegittima di un ricco signore e di una sua serva, l’autore realizza un vivido affresco della storia dell’Afghanistan, tormentato da una interminabile e distruttiva guerra fra gli anni Settanta e l’inizio del nuovo millennio. Fra i tanti meriti l’autore ha quello di avere con sapienza rappresentato la realtà sociale del suo Paese e denunciato con forza le inaccettabili condizioni delle donne afghane, alle quali il libro è dedicato.
Alcuni decenni prima in Italia, mentre si stava faticosamente uscendo dal lungo e oscuro tunnel di due guerre mondiali e della dittatura, quasi d’incanto apparve il memoriale di Carlo Levi, destinato ad un successo mondiale con ben 40 traduzioni, l’ultima delle quali è stata realizzata nel 2018 da Yuko Nishimaki in lingua giapponese. Attraverso una narrazione sospesa fra realtà e favola, in cui racconta il suo confino a Grassano e ad Aliano al tempo del fascismo, l’autore indaga e denuncia i gravi mali che affliggono la Lucania, tormentata dalla miseria e dalla malaria. Così, il Cristo di Levi compie il miracolo di attirare l’attenzione universale sulla questione meridionale, che era stata rimossa nel periodo fascista, e dà un contributo importante al recupero e alla valorizzazione dei Sassi, che saranno decisivi per la metamorfosi di Matera da città della vergogna nazionale a capitale europea della cultura.

Dopo questi fuggevoli riferimenti è giunto il momento di soffermarsi su Dacia Maraini, una delle figure più rappresentative del panorama letterario italiano del secondo Novecento. Nella sua prolifica e varia attività letteraria, iniziata oltre sessant’anni fa, la scrittrice mostra un’assidua attenzione per i grandi temi sociali e civili, che sono da lei affrontati con rara sensibilità e proposti con grande forza comunicativa sui maggiori quotidiani nazionali, oltre che attraverso romanzi, racconti, testi teatrali, poesie di altissimo valore estetico.
Della sua sterminata bibliografia scegliamo l’aureo libretto Sulla mafia - Piccole riflessioni personali, una ricca raccolta di articoli scritti il 1992 e il 2008, in cui l’autrice presenta un lungo corteo di personaggi, che, vittime o carnefici, sono comunque attori di una grande tragedia regionale e nazionale. Fra tutte spicca la figura di Carmelina, eroica madre di un giovane pentito ucciso dalla mafia e protagonista del racconto A piedi nudi: è un monologo vibrante di tensione emotiva, in cui emerge il contrasto tra la fedele osservanza delle leggi ancestrali dell’omertà e l’inestinguibile sentimento dell’amore materno.
Carmelina per la Maraini è l’incarnazione di un dramma, il fenomeno mafioso, che risulta tanto più terribile, perché non lascia intravedere nessuna catarsi. L’Italia, infatti, è storicamente un Paese incapace di «passare dal sentimento innato della giustizia alla pratica della legalità» (7) e oggi lo è più che mai per la crisi profonda che pervade la famiglia, la scuola, lo Stato. 
Nell’ultimo libro ancora fresco di stampa, Vita mia – Giappone 1943 Memoria di una bambina italiana in un campo di prigionia, è narrata la tragica esperienza, vissuta dall’autrice all’età di meno di sette anni, quando, sul finire dell’estate 1943, con la famiglia è rinchiusa nel campo di concentramento di Nagoya, perché il padre Fosco è stato accusato di alto tradimento dal governo giapponese. La scrittrice confida di essere stata per un certo tempo tentata «di dimenticare ciò che non si può dimenticare, soprattutto quando si sente che circola e si diffonde un sentimento di irritazione e di stanchezza verso la memoria, un sentimento che sentiamo come offensivo e umiliante». Alla fine, però, è prevalso il bisogno, anzi il dovere, di «rammentare e testimoniare». (8)
Eccoci, infine, a Il treno dell’ultima notte, un grandioso romanzo, pulsante di storia e di vita, che non è azzardato considerare uno dei gioielli più preziosi della letteratura contemporanea per le molte qualità che lo caratterizzano e che si appalesano fin dalle prime pagine, dove si delinea lo scenario dell’opera. Sono gli anni torbidi della guerra fredda, quando la protagonista Amara Sironi sale su un «treno che – dice l’autrice - tenta di sgusciare, più che da un paese all’altro, da una civiltà all’altra, da un’ideologia all’altra, da una mentalità all’altra. Un vecchio treno con pochi passeggeri, una catena di logori vagoni che vogliono forzare le maglie della divisione del mondo». (9) 
Prima tappa del viaggio di Amara, inviata dal suo giornale per un’inchiesta sulla situazione politica nei Paesi dell’Est europeo, è, dopo una sosta a Cracovia, Auschwitz-Birkenau. Qui inizia la ricerca tanto ostinata quanto evanescente di Emanuele, che era stato suo tenero indimenticabile amico negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza a Firenze. Nel 1939, però, egli, per un’improvvida decisione dei genitori ebrei, l’industriale Karl Orenstein e la madre Thelma Fink, ex cantante di varietà, si trasferisce a Vienna, proprio nel periodo in cui la capitale austriaca precipita nell’incubo della persecuzione antisemitica. 
Unica traccia nelle mani di Amara, insieme con un fascio di lettere che Emanuele le ha scritto dal ghetto di Lodz, dove è stato deportato con il padre e la madre, prima di finire probabilmente ad Auschwitz, è un diario, ritrovato accidentalmente nel ghetto e a lei recapitato dopo la fine della guerra.
L’avventura della protagonista finisce così per intrecciarsi con l’intenso e tumultuoso susseguirsi di eventi straordinari che nella prima metà del Novecento sconvolsero la vita del vecchio continente e del mondo intero: l’avvento dei regimi dittatoriali, la guerra e l’Olocausto, le tragiche ed epiche giornate della rivolta ungherese nel 1956, segnate prima dalla grande illusione di una società nuova e poi dall’invasione di Budapest da parte dei carri armati sovietici, che spengono nel sangue il sogno di libertà del popolo magiaro.
Quello di Amara, come si evince dal mirabile epilogo, intriso di delicati sentimenti e di grazia poetica, è un viaggio doloroso e ostinato nell’abisso della memoria, che intende ostinatamente recuperare e custodire gelosamente un brandello di fiducia in un mondo migliore. Leggiamo:
«Tadeusz era un uomo giusto. Non so se sia stato un buon padre: mi ha trattato sempre come un amico piuttosto che come un figlio e forse i figli hanno bisogno di un padre piuttosto che di un amico. Ma l’ha fatto per generosità, per democrazia. […] Ho avuto modo in questi giorni di conoscere un padre diverso, coraggioso e fiero. Sono stato contento di avere trascorso con lui gli ultimi giorni della sua vita, combattendo contro un nemico comune. Così come aveva detestato il nazismo che gli aveva ucciso sua moglie, oggi trovava intollerabile lo stalinismo che di fatto gli ha tolto la vita. Sono orgoglioso di essergli stato accanto in questa ultima battaglia per la libertà. Addio, papà. Sii più prudente quando entrerai in quel paradiso che probabilmente è diviso in due metà nemiche. La guerra fredda non è finita. Stai attento alle pallottole vaganti. Continuerò a volerti sempre bene». (10)
Nella cupa atmosfera di dissoluzione e di morte, che avvolge l’epilogo del romanzo come un sudario, è però presente un dolore catartico. Le parole sussurrate da Hans, mentre accarezza la gelida fronte del padre ormai privo di vita, trasmettono un messaggio consolante, che riaccende la speranza della salvezza. D’altronde, a noi pare sia questo lo stigma che tempra la lussureggiante produzione letteraria di Dacia Maraini, la quale affida alla letteratura il compito oneroso ma esaltante di aiutarci a conoscere noi stessi, a praticare l’etica della responsabilità, a dare un senso alle nostre fragili esistenze con pensieri e atti che siano capaci di celebrare la sacralità della vita.

Angelo Colangelo

[1] V. Cilento, Trasposizioni dell’antico, Ricciardi, Milano-Napoli, 1961, p. 138
[2] S. Quasimodo, Alle fronde dei salici, in Giorno dopo giorno, 1947
[3] P. Levi, Se questo è un uomo, 1947
[4] G. Santayana, Reason in Common Sense, in The Life of Reason, 1905-1906
[5] V. Cilento, Lo spirito poetico e la novità dell’opera agostiniana, in Medioevo monastico e scolastico, Ricciardi, Milano-Napoli, 1961, p. 19
[6] Agostino, Confessiones, III, 1
[7] D. Maraini, Sulla mafia, Roma, Perrone, 2009, p. 82
[8] Dalla recensione di Alessandra Stoppini, scuola.net, 23 ottobre 2023
[9] D. Maraini, Il treno dell’ultima notte, Rizzoli, Milano, 2008, p.11
[10] Ivi, pp. 365-366

 


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