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Michele Parrella. Poeta a vita o di diritto

05 Giugno 2023
Michele Parrella. Poeta a vita o di diritto
Michele Parrella è un uomo di tavole imbandite con modestia, un commensale dal passo oraziano, uno che è sempre andato in visita alla vita per cercare un amico disperso in trattoria.

Il Comune di Laurenzana situato in Basilicata nella Provincia di Potenza, in collaborazione con l’Associazione Culturale Hortus Animae Laurenzana, ha avviato un percorso progettuale finalizzato alla istituzione di un Parco Letterario dedicato al Poeta Michele Parrella

 Michele Parrella, nato a Laurenzana nel 1929 e morto a Roma nel 1996, è certamente uno dei grandi poeti che la Basilicata ha regalato alla Storia. Nel 1954 esordisce con Poesia e pietra di Lucania, cui seguiranno Paisano (1958), La Piramide di Pietrisco (1981) e La Piazza degli Uomini (1997). Ha realizzato vari documentari sulla Basilicata e non solo e ha collaborato con il regista Francesco Rosi nella realizzazione del Film “Cristo si è fermato a Eboli” tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Levi. 

 Ma la sintetica scheda innanzi riportata dice assai poco riguardo allo spessore di Parrella e all’importanza che la sua poesia ha assunto nel panorama Italiano del Novecento e, dunque, nel voler tracciare un profilo che ben restituisca il suo spessore e la sua ampiezza poetica, a noi non resta che affidarci su quanto scritto e sostenuto da amici, letterati e intellettuali che lo hanno frequentato e conosciuto e che, prima di altri, possono dunque con le loro parole e le loro analisi restituirci la sua opera nella sua interezza e nella sua importanza. Uno di questi è certamente Giuliano Ferrara - suo grande amico e estimatore – il quale, in un vero e proprio “gioiello stilistico e contenutistico”, nella sua prefazione al Volume La Piazza degli Uomini, (ultimo libro di Parrella pubblicato da Marsilio Editore) parlava così del nostro poeta: 

 (…) Michele Parrella è un poeta a vita o di diritto. La parola è diventata il suo laticlavio, una volta per tutte. 
Non conosco la data della sua elezione, e ignoro altre circostanze. Ma so che l’elezione c’è stata. Parrella una volta ha dettato questi versi: 

Gli ubriachi pendono dal balcone
cogli occhi degli impiccati,
il vento li fa dondolare
sulle grida dei venditori.

Che gli ubriachi dondolino sulle grida dei venditori, piuttosto che tra le loro grida, è un dettaglio grammaticale decisivo. 
La poesia di questo secolo vive di precisione, ha un qualche opaco ma genetico rapporto con i progressi della chirurgia, con i prodigi della tecnica.
In questo è poesia classica: nasce nel tempo e lo accompagna, rassegnata e demente, con il suo rifiuto. Ermetici, e simbolisti confezionano protesi per gli occhi invalidi del lettore moderno.
Cercano di surrogare con arti in vetroresina le funzioni decadute di un corpo di parole che non funziona più.
Sopra le correnti oceaniche del trasporto lirico, nell’aria appena conquistata, fabbricano macchine adatte al volo in alta quota.
Infatti i loro versi volano più alti delle aquile e sono sempre in debito d’ossigeno.
Il dondolio degli ubriachi di Parrella ha dunque il suo posto destinato sopra le grida dei venditori, in uno spazio che non ha niente di eventuale o di generico, dentro una circostanza simbolica che è molto diversa dall’emozione lirica di un paesaggio.
Prima di quei versi, d’altra parte, la desolazione mitica e sacrale di T. S. Eliot aveva definitivamente confutato l’ipotesi che il mondo del Novecento potesse sopportare di essere guardato o cantato.
Il secolo ha scritto perché il mondo venisse letto e decifrato per allusioni e simboli e vaghe, labirintiche memorie.
Da un certo punto in poi nessuno ha avuto più voglia di solfeggiare il dolore e di inneggiare alla felicità. Il pendolo ubriaco di Parrella compie la sua oscillazione, cogli occhi degli impiccati, sovrastando un campo di tensione acustica, e dondola sulle grida dei venditori: il dolore dei novecentisti è un esperimento di fisica, non un sentimento lirico.
Questo è il punto, quando si viene (e finalmente ci si viene) a un poeta così superbamente laureato, così dotto e concettoso, così facile e lirico nell’apparenza, ma per essenza dotato di un amore malinconico e segreto per quell’imbroglio inestricabile che è la bellezza.
Nei poeti a vita o di diritto, venerabili eppure mai venerati abbastanza, c’è posto per molta legna d’ulivo, come nei grandi camini di campagna, e ogni ciocco è un genere a sé.
Ecco un caso esemplare di ermetismo giocoso, sei versi eccellenti sospesi tra Cabala e poesia contadina, pitagorismo meridionale e Tarocco (a dimostrazione che non tutte le intelligenze che si divertono debbono di necessità essere leziose). 

Uno monta la luna
due il bue
tre la figlia del Re
quattro il gatto
cinque raccogli il frumento
sei piedi incrociati. 

Però la mescolanza dei generi è sempre in agguato.
Sorprendente e scherzosa, nella scrittura di Michele Parrella, imprevedibile come il suo talento, si affaccia d’improvviso, facile facile, la trama di un lirismo assoluto, melodico, da ballata «lorquesque».

Aveva semi d’ulivo in testa
e noci fresche nell’inguine.

E dopo due versi a colore, di pura aria lucana

La pupattola di fichi
la collana di sorbe 

arriva un ricordo italiano, ottocentesco, di Giacomo Leopardi e della sua luna spezzata. 
Ricordate quel frammento di luna che si stacca nel sogno notturno raccontato a Melisso, che cade nel giardino di casa e che era grande quanto una secchia, e di scintille vomitava una nebbia?
Parrella lo ricorda in un verso all’apparenza buttato via, come tanti altri suoi: è caduta la notte in una brace.
Che cosa sia il cupo cupo, di cui si dice soltanto che è più triste del tuono, tuttora io non so, dopo tanti versi letti a spiegazione dell’inspiegabile.
Il cupo cupo è un’infinita processione, un movimento liturgico, un andare alla croce a dire che si muova.
Oppure è rivolta, insurrezione, moto a luogo per scopi civili, una genuina ribellione, un andare coi coltelli a strappare la nebbia.
Ma forse è la naturale sudditanza di uomini e animali, la sottomissione alla forza degli elementi come grande e definitiva metafora del carattere punitivo del potere.
È, il cupo cupo, una sanzione e una condanna, è il fulmine sul dorso dell’asino.

Parrella non viene dal tragico, le sue poesie civili sono sempre d’amore, litanie capricciose e infedeli come la sua accesa passione per le donne.
Ha però un senso molto forte e riposto della gloria politica, un contatto acutissimo con la temibile questione dell’ingovernabilità della terra.
Al barone e al prete, l’anarchismo contadino reca in dono versi istituzionali (Per fare una Chiesa/ci vuole eresia) e offre un caposaldo linguistico del divino Sud, un paradigma della religiosità mediterranea:

Tu sai quanto costa alzare gli occhi
non è uno scherzo segnarsi la fronte
.

Michele Parrella è un uomo di tavole imbandite con modestia, un commensale dal passo oraziano, uno che è sempre andato in visita alla vita per cercare un amico disperso in trattoria.
Il nostro poeta si dice barbaro malinconico e rissoso, e invece incarna la estrema propaggine della civilizzazione, quando la povertà dei mezzi di sussistenza coincide con la pienezza dell’esistenza e ne reca testimonianza quotidiana.
Componendo certi suoi monconi di saggezza viene fuori che la miseria fa zoppicare i versi, ma non è da credergli.
È vero, è nel vero Parrella quando dice di sé ho solo il cuore per fare a metà.
Ma gli basta. (…) 

 Ed ecco, quand’anche in parole di altri ma che noi facciamo nostre fin nel loro contenuto più profondo, ben sintetizzate tutte le motivazioni da cui muove la volontà (morale prim’ancora che civile) di un’intera comunità – quella Laurenzanese – di voler (anche attraverso l’Istituzione di un Parco Letterario che auspichiamo trovi davvero l’assenso di tutti) onorare questo suo importante concittadino, rispetto al quale finanche il Quotidiano la Repubblica il 10 Marzo 1996, in occasione della sua scomparsa avvenuta appena qualche giorno prima, volle dedicare un articolo che ancor oggi noi leggiamo non solamente come un dovuto necrologio ma come un vero e proprio inno ad un grande artista.
Un inno ad un poeta vero, alla sua esistenza spericolata e sognante ma anche un inno alla sua poetica che spesso, neanche espressa in versi, si palesava in una precipua modalità esistenziale.
Un inno, dunque, alla vita di Michele Parrella, di questo nostro, meraviglioso e pudico poeta del Sud:

(…) È morto venerdì a Roma il poeta Michele Parrella.
Era nato nel ’29 in provincia di Potenza, a Laurenzana, uno di quei paesi che, nelle sue poesie, s’intravedono “piantati di traverso lungo i dirupi”: era un modo di ricordare le proprie radici, le quali si ritrovano in tutta la sua produzione, da “Poesie e pietre di Lucania”, del ’54, alla “Piramide di pietrisco” (1981).
L’estremo Sud era la sua patria del cuore.
“Paesano” s’intitola un’altra raccolta del ’58, ma Parrella, che viveva da molti anni nella Capitale, aveva culturalmente poco del provinciale.
Lo si incontrava nella Roma storica, specie nelle sere d’estate: un panama sulla testa, in bocca un sigaro spento.
Era figlio di un medico con studio a Potenza.
Nutrito di buone letture, viveva da scapolo, nella sua ironia un po’ spaesata.
L’ ultimo libro di versi, “La piazza degli uomini”, è uscito alla fine del ’94 da Marsilio.
Ha per temi l’amore, le fantasie del Sud, certi ricordi “civili”.
Vi compaiono figure come Antonello Trombadori, Paolo Bufalini, Enrico Berlinguer.
Una poesia, intitolata “Nord e Sud”, è dedicata alla morte di Gabriele Cagliari, il dirigente industriale coinvolto in Tangentopoli e suicida in carcere.
Parrella descrive la gente che, a Milano, “urla e applaude – al passaggio di quel corpo – con la testa avvolta nella plastica”.
Intanto, annota, “nel mio villaggio sopravvive la pietà”.
Per lui il Settentrione era un richiamo intellettuale.
Aveva scritto su Civiltà delle macchine.
In un articolo apparso nel ’56 sulla rivista Nord e Sud, si rievoca una visita a Bologna, dove “la cattedrale di San Petronio ha il colore di un forno di campagna, pare un grosso casolare abbrustolito nel riverbero dei grandi fuochi dell’età dei Comuni”.
Sempre su Nord e Sud era uscito poco prima il “reportage” d’una gita a Ivrea, compiuta da Parrella insieme a un suo corregionale.
I due giovani erano stati ricevuti nei più alti uffici della Olivetti.
Gli avevano commissionato, per “Comunità”, un’inchiesta socioeconomica sulla Basilicata.
Tornati a Potenza, Parrella e l’amico vennero “riassorbiti nel clima, nei gesti, nei passi, nelle stanchezze del luogo”.
S’incontravano senza mettersi al lavoro.
Finirono per sfuggirsi: quel mitico progetto olivettiano svanì.
I suoi autori “in pectore” si erano confinati nell’aria del Sud “come in una goffa e arrugginita armatura”.
Quel racconto s’intitola “Viaggio al Nord”.
È un gioiello in prosa.

Ecco, questo è il Parrella a cui Laurenzana ha dato i natali e che io stesso (impegnato oggi a collazionare pezzi che ben lo descrivano) ho frequentato e conosciuto molto bene.

Certo, devo qui confessare, che non mi sono ignote la pazienza, l’altruismo e la buona predisposizione d’animo che necessitavano finanche nel dargli vicinanza e affetto, ma è forse proprio partendo da questa consapevolezza che io oggi sento di non potermi esimere dal continuamente pensare che pur qualcosa tutti debbano a questo eccezionale essere, poiché ogni dovuto riconoscimento indirizzato a Michele Parrella troverà in fondo un ritorno verso se stessi, facendo sì che ognuno possa annoverarsi non tra coloro che “solamente guardano” ma tra coloro che, invece, “vedono” e hanno capacità di portarsi oltre ogni banale apparenza e fin nel dentro delle profondità.

Gli artisti sono davvero “strani animali” e per amarli bisogna avere non solo un “cuore capiente” ma anche – e soprattutto – una “vista acuta” … e noi Laurenzanesi, nei riguardi di Parrella, finalmente – e alla buon’ora direi - ci siamo decisi a dimostrare che queste qualità in fondo le possediamo entrambe.

Roberto Zito
Presidente Associazione Culturale Hortus Animae Laurentiana

Michele Parrella Laurentianae
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Laurenzana (Pz)

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