Nell’oratorio di Arquà,
entro le cui mura Francesco Petrarca, abitante del borgo euganeo dal 1369, si
recava spesso a cercare il conforto della preghiera, il 17 settembre 2023 si è
tenuta una sorta di laica celebrazione delle arti. Uno degli appuntamenti del “Festival
pianistico internazionale Bartolomeo Cristofori” ha intrecciato infatti melodie
e parole poetiche, in collaborazione con il “Parco letterario Francesco
Petrarca e dei Colli euganei” e con l’ “Ente nazionale Francesco Petrarca”.
Il virtuosismo alla
tastiera della giovane Chisato Taniguchi ha colmato l’oratorio prima con le
note di cui Franz Liszt, durante l’Ottocento, ‘rivestì’ tre sonetti del Canzoniere,
poi con la trasposizione musicale, recentissima, di un’altra lirica della
silloge (Ite, rime dolenti, al duro sasso) a opera del compositore
Gondai (anch’egli ad Arquà per l’occasione). I sonetti, letti da Daniele
Tessaro della “Compagnia teatrale Matricola Zero”, sono stati brevemente
introdotti da chi ora ne scrive.
Le liriche musicate da
Liszt offrono un esempio eloquente, sebbene ridotto, dell’acutezza, nella
variazione dei toni, con la quale Petrarca riesce a indagare le minime sfumature
del proprio sentimento.
Il sonetto Benedetto sia
il giorno, e ’l mese, et l’anno (61 della silloge), percorso quasi da un
brivido di esultanza sgrana, lungo i polisindeti che vi si snodano e inseguono,
la gratitudine di Petrarca per l’incontro che cambiò la sua esistenza e ne
determinò il destino: l’incontro con Laura, avvenuto, secondo il racconto del
poeta, il 6 aprile del 1327.
In altri passaggi del Canzoniere quest’evento è ricordato con il
rammarico del cristiano che vi scorge l’origine di un continuo tormento nonché
la causa (e al medesimo tempo la manifestazione, il sintomo) di tepidezza
d’amore verso Dio: la terza lirica della raccolta, ad esempio, in cui il poeta
fa coincidere il giorno fatale con un Venerdì Santo, esprime vergogna per la
leggerezza improvvida di chi, lungi dal meditare assorto sul sacrificio del Figlio
di Dio in terra, nel giorno più triste della Chiesa si lasciò catturare da uno
sguardo di donna e offrì alla freccia di Amore un petto inerme. Al contrario,
nel componimento 61 Petrarca benedice non soltanto il tempo e il luogo in cui lo
strale venne lanciato, ma lo strale stesso e le ferite via via inferte al suo
cuore nel protrarsi – inevitabile e meraviglioso insieme – di tale «dolce
affanno» (v. 5). Benedice, inoltre, i fogli cui consegna l’espressione del proprio
soave tumulto, illimpidito dalla perfezione di versi che, dice, gli
procureranno fama; benedice infine la concentrazione del suo pensiero su di un
unico soggetto: appunto quella Laura nel cui nome (laurus in latino è la pianta d’alloro, delle cui fronde si
cingevano le tempie dei poeti) è racchiusa anche la promessa della gloria.
Nella confusione di un
animo in conflitto con se stesso, lacerato e franto, ci inoltra invece il
componimento 134, Pace non trovo, et non
ò da far guerra. È l’esattezza squisita dell’espressione a fare da
contrappunto, così esaltandone l’intensità, alla tempesta di contraddizioni
entro cui si dibatte Petrarca: sin dal verso incipitario, che con lessico
militaresco ci mostra un amante imbelle e impotente di fronte al suo amore, la
trama retorica del sonetto bilancia antitesi e chiasmi, simmetrie, anafore e variationes, culminanti in una desolata
constatazione: «egualmente mi spiace morte et vita» (v. 13).
Né davvero vivo né morto,
bensì sospeso in un limbo grigio, è dunque il poeta, la cui incertezza costante
viene solcata, a intermittenza, dai lampi di spasimi trafiggenti.
Così, egli vive. E nulla
commuove maggiormente della semplicità con cui spiega, nell’ultimo
endecasillabo, rivolto direttamente all’amata: «in questo stato son, donna, per
voi» (v. 14).
Ma Laura non arreca esclusivamente sofferenza al suo amante o, per meglio dire, quella che gli arreca è una sofferenza che spesso (quasi sempre) gli è ‘cara’… cara e preziosa quanto colei da cui deriva. E se è vero che attraverso Laura si manifesta e che in Laura s’incarna la travolgente, insondabile terribilità della passione, altrettanto autentica e toccante risulta la dolcezza sprigionata dai suoi occhi, dalle sue parole, dalla sua persona. Guardarla, seppure dietro un velo di lacrime, accostarsi a lei, in qualsiasi modo, è esperienza comunque magnifica. Lo stupor dichiarato nel componimento 156, I’ vidi in terra angelici costumi, di fronte a uno splendore rispetto al quale ogni altra immagine sbiadisce, dileguandosi in un’ombra di sogno, non appartiene del resto al solo Petrarca: la natura intera sembra immobile, trepida e senza respiro per il desiderio di sentire l’armonia che Laura sprigiona… e mentre in Laura paiono convergere sole, acqua, terra e cielo, tra le fronde quiete degli alberi il vento tace… quasi non volesse compiere un sacrilegio.
A differenza dei sonetti scelti da Liszt, la lirica trasposta in note dal maestro Gondai appartiene alla sezione delle “Rime in morte di madonna Laura”, aperta dalla canzone (264) I’ vo pensando, et nel penser m’assale; si tratta del componimento 333 della raccolta: Ite, rime dolenti, al duro sasso.
Ite, rime dolenti, al duro sasso
che ’l mio caro thesoro in terra asconde,
ivi chiamate chi dal ciel risponde,
benché ’l mortal sia in loco oscuro et basso. 4
Ditele ch’i’ son già di viver lasso,
del navigar per queste horribili onde;
ma ricogliendo le sue sparte fronde,
dietro le vo pur così passo passo, 8
sol di lei ragionando viva et morta,
anzi pur viva, et or fatta immortale,
a ciò che ’l mondo la conosca et ame. 11
Piacciale al mio passar esser accorta,
ch’è presso omai; siami a l’incontro, et quale
ella è nel cielo a sé mi tiri et chiame. 14[1]
Interpellando – e personificando – i propri versi, addolorati e orfani di Laura quanto lo è egli stesso, Petrarca li invita a un lacrimoso pellegrinaggio presso la tomba dell’amata, ai piedi del «duro sasso» (v. 1) sotto il quale riposano le spoglie della donna che fu – e ancora è, seppur diversamente – il «caro thesoro» (v. 2) dei suoi giorni. Il contrato tra l’impassibile freddezza della lapide e il luminoso pregio della creatura a memoria della quale essa venne eretta si riverbera nel secondo distico della quartina, disponendo i termini dell’antitesi lungo una sorta di asse verticale: sebbene i resti mortali di Laura giacciano immoti, affidati alla terra, il suo spirito, dalle altezze della beatitudine, risponde alle invocazioni di chi si strugge e consuma poiché da lei è diviso. L’affrancamento, grazie alla morte terrena (che vera morte non è: l’unica, infatti, è la dannazione) dai limiti imposti dal corpo nonché dai codici di comportamento in uso tramuta infatti Laura, nel Canzoniere, da amata fiera e fuggitiva in amante pietosa; ora che condivide la luce e l’amore di Dio, intatto dalle impurità e imperfezioni insite in qualsiasi umana contingenza, quando si manifesta al poeta, in forma di visione memoriale o di puro sogno, gli può finalmente mostrare il volto tenero della sua comprensione e compassione.
A questa Laura, ora
benevola interlocutrice, Petrarca invia dunque le proprie rime, messaggere di
un disagio esistenziale e di una pena divenute profonda stanchezza. La
metafora, ricorrente nel Canzoniere,
della fatica di vivere come attraversamento di un mare agitato sottintende
l’auspicio di giungere presto in un porto sicuro: là, dove Laura si trova, al
riparo da ogni tempesta.
Soprattutto, però, il
messaggio di cui i versi devono farsi latori – messaggio inarcato in enjambement fra la seconda quartina e la
prima terzina del sonetto, a saldarlo insieme – è un messaggio di indomita,
imperitura fedeltà. Pur afflitto e sfinito, gravato dagli anni e dal dolore, il
poeta non cessa di prodigare a Laura tutta la propria devozione, affinché gli
altri uomini, contemporanei e posteri, possano avvertirne l’eccellenza e amarla
a loro volta. Francesco segue l’amata passo dopo passo, le resta accanto perché
va «ricogliendo le sue sparte fronde» (v. 7). Un intreccio di simboli e di
rimandi intratestuali ed extratestuali (anche al di fuori del Canzoniere) viene racchiuso
dall’immagine, alla lettera semplice, di un uomo intento a raccogliere foglie
sparpagliate. Laura, non si dimentichi, porta il nome dell’alloro ed è, nel Canzoniere, l’alloro, ossia la pianta sacra al dio della poesia,
Apollo: in alloro si metamorfosò infatti la ninfa Dafne,[2] da Apollo bramata e
inseguita… invano. Raccogliere le fronde sparse di Laura-alloro significa
dunque ricomporre e preservare ogni reliquia di lei tramite la poesia, datrice
d’immortalità; al contempo, significa riordinare, grazie a un’estetica della
parola che equivale a virtù, i brandelli della propria anima in tumulto,
disponendo le rime originariamente «sparse» (così le definisce Petrarca ad
apertura del sonetto proemiale) in un mosaico compiuto, che coinvolga e porti ad unum anche i fragmenta dell’anima (e Rerum
Vulgarium Fragmenta – frammenti di
liriche in volgare – è il titolo effettivo della silloge da noi detta,
comunemente, Canzoniere).
Forte di questa sua
ininterrotta dedizione – attraverso cadute e illusioni, pentimenti e rimorsi –
Petrarca osa quindi idealmente levare lo sguardo al cielo, sperando che lassù
Laura lo attenda e che lassù lo «tiri et chiame» (v. 14), ad assaporare infine,
nella pace e nel perdono di Dio, un amore assoluto, nel cui abbraccio si sia
dissolta ogni imperfezione e cancellata ogni ferita.
[1] Si cita da Francesco Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di Marco Santagata, nuova edizione aggiornata, Milano, Mondadori, 2004, p. 1306.
[2] In greco antico il nome della ninfa, reso nome comune: δάφνη, significa, del resto, alloro.
“Se solo potessi mostrarti il secondo Elicona che per te e le Muse ho allestito sui Colli Euganei, penso proprio che di lì non vorresti mai più andartene”. Francesco Petrarca, Epistole varie, 46, a Moggio Moggi di Parma (20 giugno 1369)