6. Eudaimonía *
La giornata è finita e vorrei riposarmi, lo vorrei davvero, ma non posso. Vorrei guardare una di quelle serie leggere che ti ricordano che nella vita c’è un tempo per spingere e uno per riposarsi, ma non lo faccio.
Non riesco a fermarmi, non voglio stare fermo. Non ci riesco. Il mio demone lo so qual è: è la paura di stare fermo. In greco antico felicità si diceva eudaimonía: stava per “buona riuscita del tuo demone”.
Per farlo riuscire bene, so che sicuramente bisogna conoscerlo.
Io il mio lo conosco e non so se e in quale misura lo stia plasmando bene, non spetta a me dirlo, ma so che sicuramente questa buona riuscita non può essere un punto di arrivo. Non c’è niente di buono che non possa essere ancora o sempre più buono.
La felicità non è un punto di arrivo, è un percorso, e il mio percorso non conosce fissità, né pause, né riposo. Anzi, spero che pace non sia sinonimo di felicità, perché io quella non ce l’ho, la mia pace è il moto. La mia pace è una moto che non si ferma mai. Sono i colori di un pensiero che non si esaurisce e continua a risuonare nel vuoto come una melodia infinita, come la melodia di quel pianista che sembrava promettere di esaurirsi solo dopo aver percorso l’Oceano in superficie e in profondità, quindi praticamente mai. Come i colori di Kandinsky, che sembrano buttati sulla tela per farti buttare il cervello, a forza di inseguire tutte le immagini che evocano. Li adoro per questo, perché rappresentano le mie sinapsi a colori e il colore che le mie sinapsi rincorrono in tutto quello che i miei occhi guardano.
Pensare a squarciagola mi piace da morire, mi fa sentire forte perché posso abbandonarmi alle immagini, seppur mantenendo il controllo. È un abbandono piacevolmente controllato, in cui sono io – ora che sono cresciuto - a decidere se e quando. Quando ero piccolo non riuscivo a stoppare neanche i miei pensieri, i tragitti degli insetti non finivano mai, quanta fatica che ho fatto per rincorrerli.
Quella sera, comunque, alla fine ho dormito, sono passati giorni. Riprendo queste righe sul volo per Parigi. In questi giorni ho pensato tanto a cosa significa stallo per me. A cosa significa fermarsi. Al significato di quella che in tanti chiamano o sentono o devono per forza sentire pace. Ve lo dico ora, sull’aereo. Fissità e stallo per me sono l’incedere con i vuoti d’aria sotto il fondo schiena, sono l’unico cammino che non posso controllare, significano affidarsi a uno sconosciuto a dieci mila metri da terra nell’incapacità di mantenere la calma, di placare il terrore. Dovendo atterrare tra la nebbia, a occhi chiusi.
Riesco a mantenere il controllo e la calma solo quando mi muovo sulle mie gambe, quando lavoro, quando studio, quando mi alleno, quando corro, quando è la mia testa a decidere dove andare e quando andarci. Quando la mia vita dipende da me. Quando sono io a decidere quando girare, saltare, correre, ballare.
Ma se la pace corrispondesse proprio a una fatalistica capacità di fermarsi, di abbandonarsi? Di dormire sull’aereo, rassegnandosi a un cammino che non è possibile controllare? Di realizzare che a volte realizzarsi significa proprio accettare che non possiamo controllare tutto? Che la felicità forse è la pace con cui si affronta l’ignoto?
Forse sì, in questo istante ho fatto un ulteriore passo in avanti nel cammino della mia vita interiore. Ho capito che sarò grande, sicuro, pronto solo quando riuscirò a mantenere la calma senza agire, a rassegnarmi, ad ingannare i miei pensieri senza pensare al dopo, al domani, a quello che c’è sopra e sotto di me.
Sarò veramente e fieramente pronto solo quando riuscirò a fermarmi, a mantenere la calma senza agire. A incedere in modo un po’ meno vigile, senza la pretesa di dover sempre, per forza, controllare tutto e tutti. L’ho capito proprio ora, mentre provo a distrarmi a dieci mila metri da terra, mentre il cervello prova a scrivere e nello stesso momento ad associare rumori, suoni e persone, per avvicinarsi all’idea di sicurezza. Mi porto a casa questo, oggi.
Mi prometto di provare a diventare sempre più bravo e che proverò a traslare la pace che vedo qui, nel bagliore del sole fuori dal finestrino, in tutti gli altri moti incontrollati di questo gioco fantastico e faticoso, chiamato vita.
Ora però basta, torno a concentrarmi, che c’è tanta nebbia e l’atterraggio forse sarà un po’ più complicato del previsto.
Alessandro Di Mattia
*Leggi : La coscienza circostante. 1. Prefazione. Siamo ancora qua; 2. Per quanto ancora? ; 3. L'alfabeto greco; 4. L’ossessione del piano A ; 5.Il Dio degli inglesi
Immagine di Alessandro Di Mattia. La Vittoria di Samotracia, Musée du Louvre