5. IL DIO DEGLI INGLESI*
A scuola, all’università, in qualunque corso di formazione o aggiornamento professionale c’è una metafora ricorrente: quella sportiva. La metafora sportiva è utilizzata da chiunque abbia bisogno di motivare qualcun altro, spingerlo all’azione, al di là dei propri limiti. Perché? Perché lo sport è pieno di belle storie, di ultimi che senza particolari aiuti della buona sorte riescono a coronare carriere di successo, vincere trofei, cambiare la propria storia personale e quella della propria famiglia.
Nello sport, ogni tanto, l’outsider di turno fa notizia e fa sognare tanti altri come lui. Siamo tutti un po’ Rocky in fondo. Lo abbiamo amato e lo amiamo per la sua capacità di vincere partendo da zero, con la forza del sorriso e dell’umiltà. Tutti amiamo lo sport, perché ogni tanto abbiamo bisogno di sentirci importanti, anche se in realtà non contiamo niente. Non contano niente i 25 mila di Budapest e i 55 mila dell’Olimpico, ma c’erano, erano lì solo per sognare, stretti a una squadra di cadetti da un legame viscerale, più che profondo, magico, che per spiegarlo un trattato di sociologia non basterebbe. Tra i 55 mila dell’Olimpico, a quasi 1300 km da Budapest, ho incontrato una coppia di liguri che arrivavano da Genova per seguire la Roma da uno schermo, tale e quale a quello che avevano a casa forse. Anzi, a casa la avrebbero pure vista meglio. Erano venuti da Genova per guardare una partita in uno schermo e abbracciare gente sconosciuta, mai vista prima. Per sperare, il giorno dopo, di contare qualcosa, anche se di fatto non contano niente.
Lo sport ha una vocazione quasi spirituale, è una delle poche cose belle della vita e a volte ci aiuta a sopportarla. Si pensi al caso di chi si segue le Olimpiadi in ospedale, sperando che il suo male guarisca, sperando di essere – un giorno – nei panni dei propri idoli, che prima magari sono stati male anche loro, ma adesso si trovano a migliaia di km per coronare i propri sogni e quelli di tutti. Per sentirsi importanti, anche se probabilmente non contano niente. Le persone ne hanno bisogno per non essere divorate dalla mediocre impotenza della condizione umana e lo sport a volte permette loro di vincerla, o quanto meno di non pensare a quanto sia dura. Prendiamo il caso di Messi. La scienza gli aveva detto che non avrebbe mai potuto giocare a calcio. Eppure, si è trasferito a milioni di chilometri da casa ed è riuscito a vincere tutti i trofei possibili, mondiale compreso, l’ultimo che gli mancava per essere considerato più forte di Maradona, oppure forte tanto quanto lui. Leo Messi ha vinto tutto, persino la natura, per questo sarà ricordato per sempre. Perché ha dimostrato a tutti che il calcio non è solo uno sport, il calcio è vita, lo sport è vita. Lo sport può aiutarci a combattere la natura, a vincerla qualche volta.
Se lo sport è vita, dunque, le sconfitte dello sport quanto sono amare? Quanto pesano? Una persona che si allena anni per poter giocare una finale e poi la perde ingiustamente per uno spreco di intelligenza e tecnologia, quanto ha diritto di incazzarsi, di stare male? Quante volte può dire “That’s football non mi basta”?
Secondo me tante, perché i sogni infranti dello sport sono i sogni infranti della vita e un sogno infranto pesa molto, troppo sul morale, perché toglie alle persone la convinzione che ogni tanto gli ultimi vincono davvero, anche senza i mezzi per farlo, anche senza particolari aiuti della buona sorte, anche senza doti tecniche spiccate. Il viaggio è stato lungo, tortuoso, difficile. Si stava per chiudere più di una volta, ma si è riaperto con merito, fino a Budapest, dopo aver superato squadre forti, tecniche, belle da vedere.
In cuor nostro, a fine primo tempo, abbiamo tutti avuto la vittoria nel cuore, in tasca, a pochi passi da noi, abbiamo tutti pensato “Non succede, ma se succede!?”. E questa volta eravamo tutti sicuri che succedesse davvero. Ci siamo stretti nell’ennesimo sconosciuto abbraccio nella piena convinzione che ce la stavamo facendo davvero, che forse il giorno dopo saremmo stati davvero importanti, anche se non contiamo niente. Ci sono persone che hanno dato fuoco a tutti i loro risparmi pur di essere a Budapest, all’Olimpico c’erano persone ammalate, stanche, senza soldi, senza speranze. Per uno scherzo del destino, per uno spreco di intelligenza e tecnologia è andato tutto in fumo, il sogno è finito, rimane solo l’ennesima vittoria morale, ingiusta, inutile, che serve a poco in termini di risultato e di bilanci.
Eterni secondi esaltati, frustrati, vincitori morali dal 1927. Così ci chiamano, così ci additano. Perché? Perché ci piace sognare, goderci il momento, perché non ci importa fin dove possiamo arrivare, ci piace il qui e ora, ci piace quel brivido di festa del momento. Quel sano e malato amore per chi è come noi, per chi non conta niente ma almeno una volta all’anno vuole sentirsi importante, per non pensare alla miseria, alla malattia, alla fame o a qualunque altro male della Terra. Ma ancora tutto in fumo, per uno spreco di tecnologia e intelligenza. E ancora e ancora mille sfottò, da parte di chi non comprende il valore spirituale dello sport e lo sminuisce. Alcuni lo definiscono sacro, sacro addirittura, lo sfottò, io non l’ho mai potuto digerire.
Per il pathos creato dai sogni, per me le sconfitte dello sport sono come quelle della vita e non ci trovo nulla di bello nello schernire il vicino che perde, il cugino sconfitto ingiustamente. E non sono affatto incoerente, perché non mi è mai capitato di tifare affinché altri perdessero. Né nello sport, né nella vita, che poi ripeto: in fondo sono la stessa cosa. Lo sport e la vita sono la stessa cosa: lo sapeva Pietro Mennea quando diceva che più grandi sono i sogni, più grande è la fatica, tanto nello sport quanto nella vita. Lo sapeva Bartali, quando utilizzava la bicicletta per aiutare il prossimo e diceva che è proprio nel momento della disperazione che deve iniziare il momento della voglia. Quello che ti spinge a dare anche quello che non hai, se ci metti anima e cuore. E ci è diventato Giusto tra le nazioni, con una bicicletta.
Ne consegue che schernire una persona nello sport è schernirla nella vita ed è da persone senza cuore. Soprattutto davanti a ingiustizie così grandi. Non oso neanche immaginare la miseria umana e intellettuale di chi è costretto ad augurarsi la sconfitta degli altri, anche se non produce effetti sulla propria persona o sui propri risultati.
Ci siamo goduti abbracci infiniti, con persone sconosciute, partite straordinarie con ogni volta 60 mila amici, compagni, fratelli, che erano sempre lì per cantare e contare qualcosa, anche se non contano niente. Questo mi basta per essere felice? Personalmente no, ma in qualche modo mi devo pur consolare. Le ingiustizie sono difficili da accettare, la tracotanza umana ancora di più. Da tutte le delusioni, però, qualcosa l’ho imparato. Ho imparato che non importa dove arrivi, ma ciò che provi mentre vai e che al Dio degli inglesi non bisogna credere mai.
Alessandro Di Mattia
*Leggi : La coscienza circostante. 1. Prefazione; 2. Per quanto ancora? ; 3. L'alfabeto greco; 4. L’ossessione del piano A
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