Tra le fonti d’ispirazione di Emma Perodi oltre alla letteratura religiosa, eroica ed horror, alla Divina Commedia, alla Guida del Beni, ci furono sicuramente alcuni fatti di cronaca che la scrittrice sapientemente riutilizzò ed amalgamò con fantasia e creatività, in alcune narrazioni.
La versatile scrittrice che si teneva costantemente aggiornata, anche perché impegnata come giornalista presso alcune testate romane, certamente fu attratta dal dramma di Mayerling che riproponeva una riflessione su Eros e Thanatos non solo come personaggi della filosofia mitologica antica ma come forze primordiali che guidano i destini umani. Esemplare in questo senso sembra la novella L’albergo Rosso, racconto ambientato a Pontassieve, un paese vicino a Firenze. Per la prima parte della narrazione, la scrittrice toscana sembra essersi ispirata ad Edgar Allan Poe che nel 1842 pubblicò “La maschera della morte rossa” (La mascherata della morte rossa, La pantomima della morte rossa) nel quale l’emblema era il rossore e l’orridezza del sangue che rimanda puntualmente alla descrizione perodiana della camera rossa dell’albergo di Pippo, il locandiere: “La camera era molto grande ed era tutta dipinta di rosso fuoco. In alcuni punti, sul pavimento pure scarlatto, si vedevano macchie grandi e lucenti, talchè parevano chiose di sangue fresco. In fondo alla stanza vi era un lettone col cortinaggio pure rosso e per mobilia nient’altro che un tavolino dello stesso colore ...”.
In questa descrizione che sottolinea simbolicamente attraverso il colore rosso sangue, l’efferato delitto che in quel luogo era accaduto, Emma ripercorre il metodo utilizzato da Poe per il suo racconto anche riproponendo il simbolo del colore Rosso, nel titolo della novella. Ciò che stupisce ulteriormente è il fatto che la scrittrice aggiunga un finale che sembra un’appendice e che evoca in maniera inequivocabile il dramma di Mayerling: il fatto di sangue drammatico della corte di Sissi. Questa aggiunta che poco o niente aggiunge all’ intreccio narrativo che vede la conclusione della vicenda di messer Gentile di san Godenzo nel momento in cui “ andò ad Arezzo, dove fattosi consegnare i danari rubati allo zio, fece con quelli larghe elemosine in suffragio dell’anima di lui e data una buona parte di quei denari all’oste Pippo, per risarcirlo dei danni patiti, visse in pace il resto dei suoi giorni”, sembra evidenziare l’esigenza della scrittrice di mostrare, attraverso i dovuti aggiustamenti, la sua attenzione all’attualità e forse un coinvolgimento emozionale non troppo velato ai fatti di Mayerling.
Emma infatti, ribaltando i ruoli dei protagonisti, lascia intendere il mistero che avvolge l’omicidio-suicidio, per mano della dama velata (Si vedeva bene che era stata lei che aveva ucciso il cavaliere col proprio pugnale e poi s'era trafitta con la spada di lui) forse per un amore impossibile come quello di Rodolfo e Maria? Si potrebbe anche ipotizzare che in quella mano vendicativa della dama velata ci fosse una vendetta di penna della scrittrice? Certo è che un’esperienza di amore impossibile o forse di abuso, Emma la doveva aver vissuta se non fu mai possibile conoscere il nome del padre di sua figlia Alice nata nel 1878. Con la narrazione del mistero dell’omicidio-suicidio della dama velata e del cavaliere, Emma conclude la novella L’Albergo Rosso, nella consapevolezza di aver affidato alla scrittura un forte messaggio con il quale probabilmente riscattava almeno in parte l’esperienza di ragazza-madre:
“Però, l'albergo di padron Pippo, doveva esser teatro di un altro assassinio, più drammatico del primo.
Era un anno che la camera rossa aveva perduto le macchie di sangue, quando una sera sul tardi giunse all'osteria una lettiga attorno alla quale cavalcavano buon numero di cavalieri.
Dalla lettiga scese una donna velata, ed era così affranta che fu portata nella camera fatale, dove Pippo ebbe ordine di recar la cena. Uno dei cavalieri era rimasto a far compagnia alla dama, mentre l'oste stava giù a soffiar nei fornelli per aiutare la moglie, e gli altri bevevano nella sala comune.
Quando la minestra fu pronta, Pippo mise due scodelle in un vassoio e salì la scala; ma appena pose piede nella camera, gettò un grido, lasciò cadere tutto quello che aveva in mano e scese smarrito.
I cavalieri, nel vederlo comparire con quella faccia stralunata, balzarono in piedi e lo interrogarono; ma l'oste era ammutolito dallo spavento. Allora salirono su e rimasero anch'essi esterrefatti nel contemplare lo spettacolo che avevano dinanzi agli occhi. Il loro compagno giaceva in terra trafitto da un pugnale nel petto, la dama era seduta, col capo riverso, tutta coperta di sangue. Si vedeva bene che era stata lei che aveva ucciso il cavaliere col proprio pugnale e poi s'era trafitta con la spada di lui.
I cavalieri, senza scambiare una parola, presero i due cadaveri, li portarono giù e, depostili nella lettiga, sellarono i loro cavalli e sparirono sulla via Fiorentina, dalla quale erano giunti poco prima.
Figuriamoci come restasse la Rosa vedendo quei due cadaveri, quella fuga e il suo Pippo inebetito!
Ella lasciò bruciare la cena e corse in paese a chiedere aiuto.
A un tratto l'osteria fu piena di gente, e Pippo fu circondato da una folla che lo interrogava, lo scoteva, per farlo tornare in sé.
Ma Pippo non dava segno di senno. A un tratto, alcuni dei cavalieri partiti da pochi istanti, ricomparvero, ordinarono a tutti di uscire, presero Pippo di peso e lo misero in mezzo di strada, e con una face di resina appiccarono il fuoco ai mobili della casa. Allorché videro le fiamme uscire crepitando dalla finestra, salirono sui loro cavalli e via di galoppo.
Nessuno osò opporsi ai loro atti, nessuno osò seguirli ed essi passarono come lo sterminio dinanzi a Rosa piangente, alla folla stupidita.
Dopo poco l'Albergo Rosso crollava e non era più che un mucchio di rovine.
Questa volta Pippo non si riebbe dalla paura: egli rimase ebete per tutto il resto della sua vita e la Rosa dovette camparlo, elemosinando e ripetendo la loro lacrimevole storia per intenerire la gente a farle la carità.
Per molti e molti anni le macerie rimasero intatte sul terreno dove un tempo sorgeva l'Albergo Rosso, tanto era il terrore che provava la gente al ricordo dell'assassinio, e nessuno cercò mai di scoprire il mistero che avvolgeva quel truce fatto.
Dopo molti anni, un buon prete volle far cessare negli animi la paura e si diede a rimuovere le macerie della casa. Altri, rinfrancati dal suo esempio, lo aiutarono, e ben presto su quel terreno sorse, a forza di elemosine, una chiesetta.
Ora la gente non ha più paura a passar da quel luogo, ma il fatto, narrato di padre in figlio, è vivo ancora nella mente degli abitanti di Pontassieve, e molti si fermano a recitare una prece nella chiesetta, in sollievo delle anime degli assassinati.”
Il dramma che si consumò il 30 gennaio 1889 presso il casino di caccia imperiale a Mayerling aveva scosso il mondo poiché vedeva protagonisti l’erede al trono degli Asburgo e la minorenne baronessina Maria Vetsera. L’omicidio-suicidio, causa un amore impossibile o una duplice esecuzione in nome di una ragion di Stato, poneva molti interrogativi anche se alcuni documenti, emersi nel corso degli anni (ultima lettera inviata dalla ragazza alla madre, scoperta in una banca austriaca nel 2015) ed altri indizi accrediterebbero la tesi di un dramma passionale. Altre ipotesi in proposito furono che Maria fosse incinta e che a Mayerling si fosse tentato un aborto con conseguenze tragiche che avrebbe indotto il principe al suicidio. Fu anche ipotizzato che Maria fosse figlia illegittima di Francesco Giuseppe imperatore e quindi sorellastra di Rodolfo, motivo che avrebbe reso impossibile il loro legame.
Nel 1983 l’imperatrice Zita di Borbone, vedova di Carlo, l’ultimo degli Asburgo, dichiara in un’intervista alla Neue Kronen Zeitung di Vienna che quello di Rodolfo e Maria fu un delitto di Stato dovuto ad un complotto per uccidere Francesco Giuseppe del quale il principe ereditario era stato messo a parte. La tesi più logica comunque resta quella del doppio suicidio o dell’omicidio-suicidio.
La mattina del 30 gennaio 1889, tra i boschi di Mayerling, a sud ovest di Vienna, il cameriere personale del principe Rodolfo d’Asburgo, l’inquieto primogenito dell’imperatore Francesco Giuseppe e della bellissima Elisabetta “Sissi”, dopo aver udito due colpi di pistola, scopriva i cadaveri dell’erede al trono e della baronessa Mary Vetsera, amante del principe da circa un anno. Nella stanza verranno trovate due lettere di addio, entrambe scritte da Rodolfo, una alla madre e una alla moglie.
Sembrò subito evidente che il principe si fosse suicidato, forse dopo aver ucciso la giovane amante. Nonostante i vari tentativi di nascondere lo scandalo: il cadavere della giovane amante fu legato ad una scopa o a un asse di legno per tenerlo dritto e farlo sembrare vivo e portarlo via in fretta e furia in carrozza e seppellirlo nel vicino cimitero di Heiligenkreuz; si fece circolare la storia, ripresa dai giornali, di una morte del principe dovuta a un aneurisma, la verità venne fuori in fretta. Rodolfo, morto suicida, non aveva diritto alla sepoltura in terra consacrata; Papa Leone XIII accreditando la tesi di un suicidio commesso non in condizioni di intendere e volere del principe, concede la dispensa e l’erede al trono potrà avere il suo funerale di Stato ed essere inumato nella cripta imperiale di Vienna.
Il castello di Mayerling, residenza di caccia imperiale, su decisione dell’imperatore Francesco Giuseppe, fu trasformato in convento di carmelitane e nella stanza da letto dove si consumò la tragedia fu eretta una cappella, divenendo luogo di espiazione e preghiera.
Questa ristrutturazione architettonica rendeva ancor più evocativo il luogo: Emma ne seppe cogliere tutta la suggestione nella sua novella che si conclude così: ”e ben presto su quel terreno sorse, a forza di elemosine, una chiesetta.”
La tragedia di Mayerling, fosca, romantica e misteriosa, dovette affascinare molto la Perodi e nel tempo ispirare film, fumetti, libri e opere musicali. La pellicola più famosa è quella del 1968 diretta da Terence Young e che si intitola semplicemente Mayerling.Tra i libri, forse il meno conosciuto è il romanzo storico scritto da un giovane Benito Mussolini nel 1910.
Alberta Piroci Branciaroli
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Immagini
Il casino di caccia di Mayerling dopo la ristrutturazione del1889 (Unknown author, Public domain, via Wikimedia Commons)
Rodolfo d'Asburgo-Lorena
Maria Vetsera